Il discorso di Michela Marzano sull’amore mi ha fatto venir
voglia di scrivere qualcosa a riguardo.
“Amare è dare ciò che non si ha a chi non lo vuole”
sosteneva Jacques Lacan e questo è il punto centrale del libro della Marzano.
Quando teniamo a qualcuno, proiettiamo i nostri bisogni e quidi cerchiamo di
dare ciò che a noi manca e che vorremmo ricevere. Dunque, c’è sempre una certa
incomunicabilità nel rapporto, perché è ovvio che l’altra persona non rispecchi
i nostri bisogni ed è nell’accettazione reciproca che si apre uno spiraglio di
libertà attraverso il quale si può riconoscere e accettare il cambiamento – sia
in sé stessi che nel prossimo. Freud ci insegna che la”scelta” di un compagno è
guidata da una sorta di ripetizione, cioè dalla volontà di ricreare una
relazione perduta che ci possa completare. La psicanalisi mostra però che il
vuoto è qualcosa di connaturato alla struttura umana e che perciò non esiste
una complementarietà perfetta che possa “curare” certe ferite. È in
quest’ottica che bisognerebbe rivalutare l’idea della fedeltà come valore.
Nessuno è in grado di promettere l’eterna fedeltà intellettuale perché, secondo
una massima di Nietzsche, “Non si può promettere qualcosa che ha a che fare con
la sfera del essere e non con quella del fare: altrimenti sarebbe come sminuire
il sentimento a una mera serie di gesti”. È però plausibile impegnarsi a essere
sinceri, ossia segnalare il cambiamento e renderne partecipe il partner. Quante
volte sentiamo la frase: «Siamo cresciuti in modo diverso» per giustificare la
fine di una storia? Se l’amore per una persona è destinato a svanire, il
sentimento rimane come elemento che ha plasmato la nostra identità, ovvero
finisce lo stato di innamoramento ma perdura il senso più essenziale della
nostra esperienza. E qui dovremmo cominciare una riflessione sulla scorta di
Javier Marías sull’innamoramento universalmente considerato positivo ma che
spesso diventa il paravento per giustificare qualsiasi bassezza. Secondo
l’autore spagnolo “Non è mai possibile conoscere la verità nei dettagli” perché
si presenta aggrovigliata, non lineare. Scontrandoci con il quotidiano,
dovremmo abbandonare gli ideali che ci siamo costruiti fin da bambini – i miti
stucchevoli del Principe Azzurro e la Principessa Rosa – e calarci nella
realtà. In un contesto meno zuccheroso, senza i fronzoli della leggenda si cala
nel quotidiano, sporcandosi ma diventando al contempo più utile e meno
pericoloso, meno violento. L’unica soluzione percorribile è accettare le nostre
mancanze come simili e parallele alle mancanze dell’altro e così imparare a
vedere nuove possibilità laddove prima non avremmo neppure cercato.
È qui che l’autrice – docente di filosofia alla Sorbona – si
ricollega alla figura archetipica di Penelope, la moglie devota che si è illusa
che nulla fosse mutato nei quindici libri di assenza dal poema e solo dopo si
accorge fatalmente che non è così e che suo marito è sì tornato da un periplo
lungo vent’anni, ma lei non ha vinto perché non ha più lo stesso uomo.
Allora la tela – simbolo del controllo – non è servita a
fermare il tempo e a eterizzare le caratteristiche di una situazione passata:
Ulisse vuole ripartire perché il suo scopo è la conoscenza e non tanto il
mantenimento del nucleo famigliare che lei aveva tanto difeso ingannando i
Proci e impedendo loro di prendere il potere. Nella decostruzione del mito della fedeltà
coniugale, è interessante menzionare alcune tradizioni più tarde rispetto a
Omero, che dipingono un personaggio del tutto diverso, quasi opposto: secondo
alcuni, durante la lunga assenza di Ulisse, la donna si concesse al dio Ermes
diventando madre di Pan; altri concludono il mito con il ripudio da parte del
marito (analogo alla fredda decisione di Rama dopo aver riscattato la sua
sposa, Sita); altri ancora sostengono che dopo la morte del marito, lei avesse
sposato Telegono, figlio dello stesso Ulisse e di Circe.
Il canto del poeta ha dato a Penelope quell’immortalità che
la gelosa Calypso le negava ma è rimasta legata alla memoria: la sua tela non è
solo un mezzo per fare e disfare lo Spazio – creando un rifugio tutto per sé,
alla maniera di Virginia Woolf – ma serve anche a manipolare il Tempo; essa è
una prigione che si compone delle maglie del ricordo. Si potrebbe quindi
tornare a Marías (e a Shakespeare) citando l’estremo “Avrebbe dovuto morire più
avanti” di Macbeth che in spiega sinteticamente il ruolo centrale che persino
un defunto può assumere nella vita delle persone che gli sono rimaste legate.
Questa idea allargata, permette di considerare non solo la Penelope-moglie ma
anche la madre che si preoccupa del figlio.
Lungi dal voler tentare un’esegesi approfondita
dell’Odissea, posso dire che Ulisse non è il solo a partire tornando poi
diverso, più maturo o semplicemente più vecchio, inizialmente irriconoscibile
persino agli occhi di colei che lo aveva tanto aspettato; anche Telemaco
intraprende il suo personale viaggio di formazione lo fa passare dall’infanzia
all’età adulta attraverso l’archetipo classico del rapporto conflittuale con il
padre assente. Le sfumature della relazione genitoriale non si esauriscono in
maniera ovvia nella figura del principe: in primo luogo se Telemaco è
doppiamente abbandonato - prima negato dal padre e poi spodestato dagli estranei
che occupano la reggia – certo non se la passa meglio il suo fratellastro
Telegono che s’imbarcherà a sua volta in un viaggio alla ricerca del padre (e
di se stesso), dietro consiglio di Atena e sarà così destinato a compiere la
profezia uccidendo Ulisse. C’è però un altro aspetto più contingente, in quanto
spicca già nel poema omerico: l’amore di Penelope verso Odisseo non è l’eros
passionale, ma piuttosto un’attesa affettuosa – rappresentato ancora una volta
dal lavoro paziente al telaio – simile alla pazienza che si prova per un figlio
che un giorno diventerà “prodigo” (ma che fine fa poi il famoso figliol
prodigo?). D’altra parte, la sola “Telemachia” non basta per spiegare
l’evoluzione caratteriale tipica della giovinezza, un’evoluzione che è simile a
quella del padre – votato alle peregrinazioni malinconiche e avventurose – e
che trova il suo contraltare nella maturità sentimentale di Nausicaa.
Claudio Magris, sulla scorta di molti commentatori
contemporanei, trova nella principessa dei Feaci una purezza che deriva da
quella mancanza di dominio che, non alterando il rapporto amoroso, lo lascia
nel regno delle possibilità, ma alcuni elementi chiudono un cerchio che
altrimenti resterebbe incompleto: fonti più tarde parlano di Persepolis (o Ptoliporthus),
forse nato da Telemaco e Nausicaa. La storia non si conclude nei ventiquattro libri
dell’Odissea, perché Ulisse resta ben poco tempo a Itaca riprendendo poi il
mare verso il Regno dei Tesproti, dove sposò Callidice ed ebbe nuova
discendenza.
Le eventuali domande da porre nel prossimo incontro letterario
verteranno quindi sulle figure dimenticate nel racconto ufficiale.