“Da
una fotografia non ci si deve affatto aspettare più di quanto essa offra. Una
fine riproduzione dell'accadere esteriore assomiglia alle impronte che ci hanno
lasciato certe bestie rare nella pietra. Esse offrono certamente del materiale alla
vista – il modo però in cui la vita dei grandi animali si svolse nei suoi
movimenti segreti è tutto da presagire e richiede della fantasia” scriveva il
filosofo tedesco Ernst Jünger. La fotografia altro non è se non una traccia che
fissa un luogo nel tempo ma lascia nascosta la sua vera natura, consegnandocene
un segmento separato dal tutto e sottratto allo scorrere degli eventi. Nell’immagine
resta quel qualcosa di indefinito che si delinea solo – e in maniera sempre
effimera – attraverso la memoria. è dunque attraverso lo sguardo consapevole
dello spettatore che un particolare assume importanza diventando parte
rilevante di un tutto che è contemporaneamente espressione del qui e ora e
vestigia del passato. Le due dimensioni sono vicinissime, si sfiorano, si
scompongono e ricompongono grazie all’accento dubitativo dell’approccio critico
dato dal taglio inconsueto della prospettiva, le distanze si allungano o si
accorciano su sfondi di desolazione padana che si allargano verso l’alto, dando
un nuovo contesto ai giocattoli, alle giostre e ai cavallini, ai parchi e alle
camere d’albergo che conservano il passaggio umano solo parzialmente,
restituendoci un’intimità pienamente soggettiva e onirica Con un sur-realismo
metafisico che rievoca Palumbo, s vola come in un gioco di cavalieri e ai cade
come un Cristo deposto, sempre inseguendo le domande che fanno da ossatura alla
formazione individuale. Cattani ripesca frammenti nella scatola dei ricordi e li
pone in sequenza, raccontando l’infanzia con toni nostalgici ma anche
sognanti, concreti eppure ancora giocosi: c’è spazio per l’utopia che, pur
contraddistinguendo i giochi dei bambini, non abbandona la visione adulta, più
disincantata e malinconica.
Fino
al 3 aprile in Sala Liguria, Palazzo Ducale