L’edizione aggiornata di“Brancaccio” fa
parte del progetto “Per questo mi chiamo Giovanni” che vuole portare il tema
della mafia nelle scuole per sollecitare e sensibilizzare i ragazzi in maniera
immediata ma diversa rispetto al recente film di PIF. È una storia d’illegalità
diffusa che non racconta solo un quartiere, con la sua gestualità e i suoi
linguaggi, ma anche una realtà più vasta, quella che rivendica il bisogno di
cambiamento. Eppure Claudio Stassi e Giovanni Di Gregorio hanno lasciato la
Sicilia per descriverne la vita quotidiana, le strade, le indifferenze, i
pericoli – con tavole scure e acquerellate che però ricordano i mercati di
Guttuso – per mostrare alle nuove generazioni qual era stato il messaggio di
uomini coraggiosi come Don Pino Puglisi e Peppino Impastato, per riportare la
tensione indifferente che si respirava nel periodo delle stragi. C’è ancora
moltissimo da fare, tante finestre da aprire prima che il muro sia davvero
incrinato perché il punto lacerante è la normalità che la contravvenzione alle
regole occupa oggi, la mancanza di fiducia nel sistema / istituzione che
abbandona più che sorreggere. Nel libro una speranza c’è, ma il piccolo Nino e
il suo sogno di andare lontano si perdono perché si è costretti ad attaccare. Partirà
un altro giovane, e il bianco e nero lascerà spazio al colore per marcare una
certa distanza dalla rabbia di dieci anni fa e segnare una disillusione che
diventa nostalgia dialettale con una tecnica piena pastosa e buia che ricorda
la scuola di Gipi e non il morbido flusso della memoria di autori come Cyril
Pedrosa.