Il regista Patricio Guzmán è specializzato nell’analizzare
il “periodo buio” della storia cilena, quella parentesi di quindici anni che
rimane come uno strappo nella coscienza collettiva della nazione. “Nostalgía de
la luz” (2010) affronta il tema da una prospettiva documentaristica e poetica,
attraverso un viaggio socio-scientifico nel territorio del deserto di Atacama,
una delle regioni più aride e affascinanti del mondo. In questo luogo marziano s’incontrano
astronomi e archeologi, entrambi impegnati a risolvere gli interrogativi sull’origine
della Terra e dell’Uomo. Purtroppo gli studiosi non sono gli unici a cercare
risposte: i parenti dei desaparecidos della dittatura stanno ancora
raccogliendo i resti dei loro cari sparsi in mezzo alla sabbia e, per quanto di
sia un aspetto romantico nella vicenda di un gruppo di prigionieri che, rinchiusi
nel campo di una vecchia miniera, passavano le serate a scrutare il cielo
trasparente per sentirsi liberi, il Paese deve ancora fare i conti con un
trauma terribile, che si ripresenta ogni giorno nella vita quotidiana delle
quasi 60.000 persone torturate dai
militari di Pinochet. Non si tratta semplicemente di rintracciare i corpi
scomparsi o di trovare motivazioni all’orrore, quanto piuttosto di accettare –
a livello pratico e spirituale – le conseguenze delle ferite. Ognuno usa la
propria esperienza per colmare il vuoto e spiegare la questione di fondo: non
tanto “come è cominciato”, ma “dov’ero io quando questo avveniva?”. Come
avviene nel libro “Il Deserto” di Carlos Franz, ascoltiamo una polifonia di
voci, tutte provenienti dallo stesso spazio ma tutte con accenti e toni
diversi: ci sono i paleontologi che seguono le tracce nomadi degli antichi
pastori pre-colombiani, i ricercatori della stazione d’osservazione
internazionale ALMA, la commozione delle donne che continuano a scavare senza
darsi pace e i figli dell’esilio, che faticano costruirsi un’identità. Esattamente
come nel romanzo, due poli estremi si toccano perché l’astro che porta la luce (quello
che “non si può nominare”) veglia sui morti che sono sottoterra. Dato che i
punti di riferimento sono irrimediabilmente perduti, è necessario disegnare una
nuova mappa che mescoli memoria e intuizione, combattendo l’oblio. Le rilevazioni
cosmografiche corrispondono alle stupefacenti planimetrie di Miguel Lawner, in
cui la precisione dimensionale dell’architetto si mescola all’urgenza della
testimonianza. Spostando quest’approccio visivo sul piano interiore e
metaforico, si può tentare un paragone tra le piante misurate a passi e il
lavoro di compilazione del protagonista di “La Fine del Mondo e il Paese delle
Meraviglie” dello scrittore giapponese Haruki Murakami: una persona alla quale
è stata portata via l’ombra percorre il perimetro della città in cui è recluso,
sperando d’individuare un piccola falla nelle alte mura, fino a comprendere che
la fortificazione si nutre dei sentimenti di chi è intrappolato. “Nostalgía de
la Luz”, premiato all’European Film Festival, affascina con la forza delle
immagini – che accostano i movimenti galattici al suolo rosso – e con la bellezza
di un linguaggio pulito; come una buona lettura genera domande invece di
fabbricare certezze.
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