Guanda,
148 pp., 14 €
Jhmpa
Lahiri è una delle migliori voci del panorama statunitense contemporaneo ma in
questa raccolta di riflessioni si presenta per la prima volta nella veste
inedita di scrittrice in italiano. L’innamoramento e di avvicinamento alla
nostra lingua è un pellegrinaggio alla scoperta di una terra vergine, in cui si
distinguono stelle-guida sconosciute. Il processo la lascia con alcuni
importanti numi tutelari (Pavese, Moravia, Quasimodo e Saba) ma senza gli strumenti
del cesello letterario, consentendole di ritrovare il piacere primitivo di
confrontarsi con le parole in maniera imperfetta e con un approccio quasi
fisico alla sfida. Le metafore che legano lo sforzo pratico alla produzione
narrativa sono molto frequenti. Basti pensare a “L’Arte di Correre” di Haruki
Murakami in cui la disciplina della pagina è paragonata al podismo; e risalendo
la scala dei riferimenti più alti ci s’imbatte in autori che si sono cimentati
con il distacco dalla propria madrelingua. Da Conrad a Pessoa, che si rifugiava
nel lido sicuro del portoghese per reinventare se stesso fino a Michela
Marzano, che ha avuto bisogno della prospettiva esterna del francese per
affrontare i suoi problemi personali e trovare risposte. Perché ogni struttura
semantica crea una particolare dimensione e connessioni diverse attraverso le
quali leggere la realtà. Nel triangolo che unisce Calcutta, New York e Roma,
rimangono le da superare le difficili distanze dello stereotipo. In questi
articoli incontriamo un’alterità spaesata ma tenace, fresca e piacevolissima
che promette di crescere e di toccare sponde inaspettate.