La
mostra ROBERT CAPA IN ITALIA. 1943-1944 in
corso al Palazzo
Ducale fino al 5 ottobre
è particolarmente importante per noi italiani, perché racconta una
storia troppo facilmente dimenticata; ma l’occhio di chi guarda non
è mai imparziale, nemmeno quando l’obiettivo è quello di uno dei
grandi padri del fotogiornalismo. Gli scatti presi al seguito
dell’esercito statunitense sbarcato in Sicilia tra il 1943 e il
1944 sono formalmente stupendi, ineccepibili, persino toccanti nella
descrizione del lato umano della guerra. La macchina cattura la
presenza (e l’assenza) umana e i sentimenti di un popolo piegato prima che l’aggressione bellica,
anche se la parola più ricorrente nelle didascalie del settimanale
“Life” all’epoca era “rovine”. Tuttavia non sbagliano i
commentatori che hanno parlato di “Costruzione del Mito”.
Il
reporter mostra allo spettatore un lato molto parziale della realtà:
quello delle folle festanti e dei soldati come eroici liberatori
giunti a scacciare i cattivi; ne è la prova l’immagine che fa da
locandina all’esposizione: le truppe si concedono un momento di
riposo nei pressi della cattedrale di Triona, con una Vittoria Alata
sullo sfondo.
Scrive lo stesso Capa nei suoi diari che si tratta
sempre di immagini semplici, che vogliono testimoniare la verità
monotona della guerra. È inevitabile sentire qui un’eco dello
stile asciutto di Hemingway che con l’amico condivideva una
visione pulita, che sembra filtrare attraverso i canoni della pittura
figurativa classica e che inaugura un’estetica cinematografica
anche nella presunta spontaneità, ellenica e al contempo concettuale
quanto un tableau piège di Spoerri.
Tanto il bilanciamento quanto il
disordine suggeriscono una quotidianità straniante di ogni
conflitto, ma è una visione assolutistica che si ribalterà soltanto
con la disillusione del Vietnam (dieci anni dopo). Nel 1944, solo i
primi piani ravvicinati di due prigionieri confutano in parte questa
impostazione e si capisce da dove Tarantino abbia preso i suoi
modelli sovvertendone il significato in “Bastardi Senza Gloria”.
I
medici impegnati sul fronte sono illuminati come su un set; la
ragazzina tratta in salvo dalle macerie e portata a spalla verso un
luogo sicuro è seguita passo passo, enfatizzando l’aspetto di
marketing di certe azioni piuttosto che altre; persino i paesaggi
appaiono come allestimenti scenici entro i quali le figure sono
distribuite ad arte.
Sulla scia di questa idea propagandistica (non
si sa fino a che punto inconsapevole), le donne e i bambini i
protagonisti affianco alle truppe. Le foglie mimetiche sui caschi
somigliano al lauro che incoronava gli attori greci e si sente una
nota di comicità nella contrapposizione caricaturale tra il forte
soldato americano e il carabiniere basso di statura che gli offre da
bere. La morte è una costante lasciata tra parentesi: si scorgono i
pennacchi di fumo dei combattimenti, i carri armati e addirittura i
corpi per le strade ma tutto questo fa parte di un equilibrio
compositivo fatto di linee e geometrie auree.
È lo stesso metodo
che il reporter aveva adottato per documentare la Guerra Civile
spagnola, privilegiando l’aspetto vitale, simbolico delle
situazioni – lontano dalla drammaticità Metthew Brady e più
prossimo a Cartier-Bresson. L’ottimo allestimento lascia dialogare
i singoli scatti e i numeri originali di “Life” li inseriscono in
un progetto narrativo strutturato per un pubblico che si stava già
abituando a un linguaggio dinamico dell’informazione. Considerato
in quest’ottica, acquista senso lo schermo sul quale scorrono
alcune delle opere in mostra, creando un’interessante dicotomia tra
originale (fotografico) e riproduzione. Sui sentieri di montagna nei
pressi di Napoli, le colonne ordinate si contrappongono alla
vegetazione e alle formazioni sparpagliate sulle rocce; il misticismo
umile di un piantone che consuma il rancio tra gli alberi morti
completa una serie di foto di ragazzi rannicchiati nelle trincee in
posizione fetale – precognizione del concetto di naive
american.
La piccola selezione permette all’osservatore di assumere
un duplice approccio: prima una visita attenta ai particolari e
quindi un secondo giro più rapido che catturi la coralità delle
masse, il lato quasi gioioso insieme a quello - nascosto - del dolore.