Domenica 7 settembre 2014 si è conclusa al Palazzo Reale di Milano la mostra dedicata
al Ciclo di Arhat del giapponese Takashi Murakami, uno dei degli più
celebri e innovativi del panorama contemporaneo. in bilico tra arte grafica,
installazione e scultura, la sua irriverenza ha denunciato la superficialità
della cultura commerciale di massa inventando uno stile – il Superfat – fatto di personaggi teneri
deformati, ammiccamenti espliciti e ripetizione serializzata di pattern
decorativi. La nuova la selezione (purtroppo incompleta) presentata in Italia
prende invece le mosse dal trauma che ha scosso la coscienza collettiva del Sol
Levante dopo la catastrofe di Fukushima del 2011: non solo una tragedia causata
dalla natura ma anche un brusco risveglio da una moratoria adolescenziale che
metteva l’uomo al centro di un sogno iper-tecnologico.
I pezzi esposti sono pochi ma impressionanti.
Negli autoritratti, l’autore si rappresenta in piedi sopra
una nebulosa spaziale, dominatore di un buco nero che si ripete nelle diverse
varianti del soggetto cambiando soltanto il colore dello sfondo fino a
raggiungere l’ottimistica apoteosi della rinascita della Terra con lo sbocciare
di sorridenti margheritine autocitazioniste. Il tema fioritura di un nuovo
mondo post-apocalittico è frequente nella narrativa visiva nipponica sin dai
tempi di Hiroshima e, in grandi classici della fantascienza animata come
Capitan Harlock, aveva già assunto la veste simbolica dei semi pronti a fiorire
da un suolo apparentemente contaminato. Qui lo stile grafico è quello della
Street Art ripresa poi dai writers di
tutto il mondo, dove persino i teschi diventano faccine carine e colorate. I
pianeti di carnei fucsia, azzurri e verde acido sorreggono l’uomo sopravvissuto
che a sua volta genera l’Albero della Conoscenza (con qualche richiamo al mito
greco di Atena e uno sguardo ai corti indipendenti di Kôji Yamamura). Il dramma
si stempera con l’intervento salvifico degli Arhat, i saggi della tradizione
buddhista, affiancati dai possenti demoni guardiani. Oltre cento monaci sfilano
sui pannelli, tutti raffigurati in pose differenti e sempre con il tono
scherzoso di un anime o di un manga di Hokusai in versione tecnicolor.
Le dimensioni mutano e i maestri più grandi indossano tuniche che riprendono i
motivi della natura: la notte e il giorno; la flora e la fauna mentre Sole e Luna
sono brillano simultaneamente sulla Montagna degli Immortali e i Demoni-Cane
hanno barbigli colorati e artigli come gemme. La ricchezza della composizione
fa scoprire sempre dettagli inaspettati mentre un retino a rombi optical copre un originario fondo che
rivela appena un ammasso di ossa, come se la costruzione della civiltà, basata
sul bisogno innato di trascendenza, poggiasse in realtà sulla ripetizione della
Morte nella Storia.
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