Edizioni Socrates, 206 pp., 13.50€
Questo è libro denso che invita a rileggerlo
appena lo si finisce per cogliere le sfumature dello stile colto di Hidalgo Bayal,
molto simile a quello di Marías. La rete di simboli si dipana essenzialmente
dall’iconografia cristiana, che si svela poco a poco attraverso l’esperienza. Un
uomo scende dal treno in un luogo dimenticato e rimane bloccato in una sorta di
limbo, prendendo il posto di un casellante che scompare misteriosamente. È una
dimensione sospesa, sfiorata e poi abbandonata dalla modernità e, proprio come
il “Paese dei Gatti” di Murakami, può essere considerato un’allegoria
dell’aldilà. Pochi elementi lo legano al passato: la sua bottiglia di vetro e
una lettera di cui nessuno conoscerà il contenuto ma che racchiude il valore
evocativo della parola come segno. Se questo grigio impiegato è stato
trasformato dal fato in uno straniero errante, anche tutti gli altri personaggi
sono identificati in base alla loro funzione all’interno del racconto: ci sono
“il ragazzo del bar”, “il venditore di cialde”, “lo straccivendolo” e “l’uomo
dell’angolo”, ombroso profeta che parla solo per massime latine: ciascuno resta
per il tempo necessario a compiere una missione e quindi si dissolve nel nulla
seguendo le traversine dei binari. Con un progressivo annullamento
dell’identità, il destino del controllore si concretizza con il fuoco, che qui
ha la stessa valenza che assume nel romanzo “Il Deserto” del cileno Carlos
Franz. Infatti, non è chiaro chi sia il nemico che arriva nella notte ad
appiccare gli incendi e viene il dubbio che si tratti di un alterego del
protagonista.
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