Pierre Loti
O barra O, 176 pp., 14 €
L’Ufficiale Pierre Loti sbarca in Giappone nel 1885. Da
circa vent’anni il Paese asiatico è stato forzatamente aperto ai commerci con
l’Occidente e il porto di Nagasaki non appare molto diverso da qualsiasi altro,
agli occhi di un europeo. Eppure per tutta l’estate della sua permanenza nel
Sol Levante resta nel proprietario di questo diario un senso di straniamento
che non si può spiegare con il semplice orientalismo che proprio in quel
periodo, in Francia, stava conquistando artisti e intellettuali. C’è qualcosa
di profondamente differente nell’Arcipelago, una delicata eleganza ricercata e
insieme spontanea che nasce dalle piccole cose e che recentemente Leoanard
Koren ha sintetizzato nelle sue note sul wabi-sabi
quale fondamento dell’estetica nipponica. Si tratta di una qualità immateriale
che richiama il Vuoto; lo stesso concetto sul quale si sofferma Loti, lo stesso
che volevano catturare Ozu e Wenders nei loro film. Nelle pagine di questo libro, il personaggio cerca
un contatto: appena arrivato, prende con sé una ragazza del posto e nel triangolo tra
lui, Crisantemo e Yves, ci sarebbero gli ingredienti per un dramma
sentimentale, se la vicenda non si svolgesse in un clima sempre misurato.
Molti
detrattori hanno criticato lo sguardo esotizzante dell’autore e il suo
atteggiamento “da colonizzatore” ma bisogna riconosce che il marinaio non si presenta
come esperto etnografo. È un viaggiatore che attraversa una cultura Altra e,
pur partendo da parametri di riferimento distorti che lo rendono impermeabile,
tenta di penetrarne il mistero. Ancora oggi i fraintendimenti sono inevitabili:
basta sfogliare i libri di MacFarlane o di Carey per rendersene conto.
“Kiku-san” è interessante sia per la testimonianza storica, sia per il suo
stile dal tocco impressionistico.
Inevitabilmente tornano in mente la Madame Butterfly di Puccini - e la splendita trasposizione grafica di Lacombe, in questi giorni in mostra in Messico -, la Mousmé (!) (signorina) di Van Gogh -
ispirata proprio a Kiku - le foto tenui della Scuola di Yokohama e forse anche
le bambole di Hatsuko Ôno, dato che agli occhi dello straniero le giovani rimangono
dei giocattoli graziosi, piccoli e fragili ma superficiali.