Bompiani, 284 pp. 18€
Tyler vorrebbe un’illuminazione che non arriva, vorrebbe
poter scrivere una canzone che lasci il segno , p forse vorrebbe solo avere uno
scopo per dare un significato alla propria vita; Barrett – che non sente il
bisogno di trascendenza, ma solo l’urgenza di trovare almeno una parvenza di
felicità, anche se sfuggente – ha quell’esperienza trascendente quasi per caso.
È una rivelazione che separa i fratelli invece di unirli, esattamente come Beth
è la creatura angelicata che li avvicina: è una madre, un amore ma è
soprattutto l’incarnazione della fragilità effimera dell’esistenza. Non c’è
nulla di eccezionale nel quotidiano di queste persone e persino l’uso di droghe
è un elemento che non pregiudica il loro inserimento in una piccola cerchia ai
margini del sistema. Ciascuno attraversa la sua crisi di mezza età senza troppi
clamori, lasciandosi scorrere addosso gli eventi, accogliendo gli eventi come
miracoli o scherzi di un dio burlone. Michael Cunningham arriva a trattare la
spiritualità come aspetto complementare di un’identità che si inserisce in un
quadro sociale più ampio. Ogni gesto è intrinsecamente politico ed è
inevitabile che la personalità dei personaggi si costruisca anche sulla base di
quanto avviene nel mondo. Dovranno
lasciare lo scenario di una casa-rifugio legata al passato per avventurarsi in
un nuovo spazio vuoto e verso un esterno condizionato da una massa insensata. Le
tensioni tra il Sé intimo e le relazioni, le micro-comunità e i cambiamenti di
un America al bivio si traducono in una lingua che è al contempo colloquiale e
poetica, impulsiva e riflessiva.
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