Recentemente,
cercando di orientarmi nella galassia di ROMAIN GARY (e scoprendo solo al
pluralità dell’eteronimia legata all’occasione, o meglio “all’azzardo” che ha
generato Émile Ajar, autore immaginario di “La vita davanti a sé”), ho letto un paio di libri ambientati
nelle banlieues parigine. Fermo restando che ogni comune limitrofo alla grande
area urbana si configura come un universo a sé, ci sono comunque alcuni
elementi costanti che hanno favorito la diffusione dei disordini, alla fine del
2005.
All’epoca erano stata la morte di due ragazzi (forse inseguiti da due
agenti di pattuglia) e poi il linguaggio
di Sarkozy e dei suoi ministri a innescare le reazioni sempre più violente di
una popolazione esasperata da decenni di emarginazione. Le rivolte erano
scoppiate come tanti incendi, arrossando la topografia della capitale e della
Francia intera. Parlando di “ripulire i quartieri difficili usando gli idranti
della polizia” , il presidente cancellava anni di tentativi sulla strada
dell’integrazione e del dialogo riaffermando il mito di una pretesa uniformità
francese e rafforzava i lati negativi di un modello fortemente assimilazioni
sta, che non ha mai riconosciuto particolari diritti alle minoranze. La
naturalizzazione – a ben guardare – è un concetto curioso, come se la mancanza
di un riconoscimento della pubblica autorità sottraesse essenza ontologica
all’Uomo; non è possibile tracciare un giudizio univoco senza cadere nello
stereotipo. Per i ragazzi nati e cresciuti respirando queste realtà, la
formazione di un’identità definita è un gradino difficile da affrontare perché
sono messi di fronte a una divisione culturale che troppo spesso diventa una
vera spaccatura, per tradursi quasi inevitabilmente in situazioni di degrado e
di povertà relativa. Dal punto di vista socio-economico, quindi, bisognerebbe
interrogarsi sull’idea insidiosa di “discriminazione positiva” , che
prevedrebbe l’approvazione di quote che favoriscano le categorie sociali
non-dominanti.
Sul
piano letterario, ponendosi a livelli molto differenti tra loro, i romanzi che
ho pescato nel mare magnum della letteratura su questo tema gettano u n po’ di
luce sulla quotidianità di questi suburbi, separati dai villini dei “francesi
veri” da una virtuale frontiera – quel
Boulvard Péripherique che si apre come un doppio fossato invalicabile.
FAÏZA
GUÈNE, giovane scrittrice di origini algerine, ha pubblicato “Kif kif domani” per raccontare
la vita di una normale adolescente nella zona di Bagnolet, una cittadina a mezz’ora
da Parigi. Con uno stile semplice, piano e vivace che confina col genere “young
adults” da spiaggia e ricorda il boom dei telefilm francesi degli anni Novanta,
l’autrice descrive un contesto in cui non resta quasi nulla della patina
nostalgica tipica della narrativa d’oltralpe.”Kif-kif “è un termine gergale che
significa all’incirca “è lo stesso” e
l’universo quotidiano di Doria è fatto di assistenti sociali, psicologhe,
vicine pettegole, tutti sembrano congiurare contro la ragazza e sua madre che,
abbandonate dal padre-marito, stentano a trovare un posto nella geografia
sociale della nazione. Tar parentesi, la
sottotrama che riguarda gli uomini di questa storia è interessante perché tocca
la necessità di ritrovare le radici
ritornando a una patria spesso dimenticata, mai conosciuta o mitizzata. Dunque questo
padre che parte per il Marocco per sposare una ragazza del luogo ha qualcosa in
comune con il marito di Susan in “I
ragazzi Burgess” di ELIZABETH STROUT che lascia tutto nel Maine per
andarsene in Scandinavia. Contesti diversissimi
che delineano però nello stesso modo il bisogno archetipico di
esplorazione che coincide con la scoperta di sé. Persino il sogno di Madame
Rosa nel libro di Gary ha i tratti della fondazione di un’utopia immaginaria.
“L’angolino ebreo” creato in cantina e il falso viaggio in Israele sono
l’ultimo rifugio di una donna malata ma, mentre la donna resta come ancora di
salvezza e pilastro della comunità, i maschi si spostano rincorrendo le
illusioni nello spazio, diventano “fanatici dell’altrove”, “ossessionati dal
desiderio di andare a portare la propria parola e la propria storia” (N’Sondé).
I migranti sono novelli Ulisse alla corte di Alcinoo.
“Il
morso del leopardo” di WILFRIED N’SONDÈ usa un registro e tinte scure e frenetiche
per rendere lo stesso tipo di disagio: il protagonista si sente dilaniato,
incapace di far convivere le due metà del suo background. Per il piccolo Momò
di Gary, la formazione affidata alla voce di un vecchio saggio portatore della
tradizione si scontra con il presente – e forse non è un caso che Gary dia il
nome Émile all’autore fittizio di “La vita davanti a sé”, richiamandosi al
classico della pedagogia voltairiana. Mentre nel racconto di Mohammed, allevato
in una casa-asilo per i bambini di strada, permane un’ aura vintage che rievoca
una foto anticata, N’Sondè, scrittore di origini congolesi, incastona una
lingua poetica e dolorosa in un mondo estraneo, segnato dalla violenza di un
degrado non voluto ma imposto. Che da stigma collettivo diventa trauma privato.
La diffidenza che si respira “fuori” finisce per contaminare anche le relazioni
personali: l’amicizia con Drissa, sempre più perso nelle sue fantasie e nel suo
mutismo e l’amore con Mireille. Il rapporto tra con la ragazza bionda e bianca
– “quasi trasparente” – è intellettuale ma prima di tutto sensoriale e rimanda
a tutti i livelli ai problemi delle “coppie miste”, con l’inevitabile altalena
d’incontri e di scontri.
Il primo riferimento potrebbe essere “Bianco e nero”, il divertente film
con FABIO VOLO, non si può annunciare uno conflitto tra culture sul piano
antropologico quanto piuttosto una scissione prima di tutto interiore che si
riassumeva benissimo già in uno dei quadri della pittrice messicana Frida
Kahlo. In “Le due Frida” un’arteria collega il cuore di una Frida
occidentalizzata a quello di una indigena.
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