Del Vecchio Editore, 262 pp., 14.50€
In Italia è ormai tramontata la frenesia per il Mondiale, ma
sarebbe bello sapere cosa ne penserebbe l’allenatore detenuto João / Yannicnick di giocatori che si presentano in campo come
starlet televisive. Nel racconto, il calcio è una metafora della vita stessa,
summa antropologica di una società in divenire. La partita come grande
rappresentazione del conflitto, della tensione che percorre le logiche di
sviluppo di una comun unità, esattamente come ha spiegato il recente saggio Bruno
Barba. E anche il religioso entrato in carcere per fare proseliti diventa un
po’ un etnologo munito di registratore. Riascoltando una ricostruzione
involuta, ricca di digressioni e citazioni il giovane perde le sue granitiche
certezze e comincia a interrogarsi su se stesso mentre trascrive quasi
fedelmente le parole di un uomo che ha vissuto mille diverse esperienze e che
ha il dono della narrazione proprio come l’aveva il naufrago Luis Alejandro
Velasco intervistato da García Márquez dopo dieci giorni alla deriva. I fatti
si delineano incontro dopo incontro, passando da un piano temporale all’altro,
richiamando le persone vicine al protagonista accanto a personaggi dei grandi
romanzi, figure storiche accanto a nomi eccellenti dello sport. All’inizio lo
spaesamento del giovane João di fronte alla metropoli lo stesso del ragazzo di
“Di me ormai neanche ti ricordi” (appena pubblicato da La Nuova Frontiera) ma,
mentre Ruffato affida l’oralità popolare alla forma epistolare, nelle pagine di
Backes la parlata delle missioni del Rio Grande do Sul si mescola a una rete di
rimandi colti, diventando una sfida per i traduttori.
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