Per avere un figlio, Eugenio e Roberta affrontano un
percorso doloroso, fatto di perdite: tante interruzioni di gravidanza,il
fallimento della fecondazione assistita. È come il percorso dell'eroe che
modifica se stesso attraverso l'esperienza Arrivano a un limite che richiede un
gesto di resilienza, ma la capacità di assorbire il dolore senza spezzarsi
porta una grande crescita interiore.
Dunque la saudade, la malinconia per qualcosa che poteva essere e non è stato,
corrisponde agli appigli di quelle vie di roccia che Eugenio esplora
interrogandosi sulle proprie possibilità dopo un intervento di ernia cervicale,
sulle possibilità di essere padre dopo essere staro figlio e la possibilità di
stare accanto a una donna che diventa madre.
Solo alla fine si affidano all'incertezza dell'adozione e approdano alla
magica avventura di essere genitori volando dall'altra parte del mondo per
incontrare Mario un bambino cambogiano di tredici mesi che, con la sua
speranza, completa l'idea di famiglia. È un viaggio nello spazio e nel tempo,
un regalo che non avrebbero avuto seguendo “il metodo tradizionale” . Non c'è
differenza tra l'adozione e la paternità biologica: in tutti e due i casi si
tratta di un piccolo marziano che piomba nel tuo mondo senza che ci siano
istruzioni per l'uso, qualcosa che h che
fare con il lavoro manuale e con lo sforzo disciplinato della scrittura. Nel
caso di Gardella c'è un elemento in più: il cammino verso l'ignoto di una
cultura altra, la sensazione di una cesura violenta che però si trasforma
istantaneamente in affetto istintivo. In genere si pensa all'emozione della
maternità e non si considera il lato maschile, e per questo è un libro unico
che coglie nel segno di un tema molto attuale, che tocca molte coppie italiane,
segnate da leggi molto restrittive. Si intravede un'analogia tra il percorso
verso la genitorialità e l'arrampicata, ma anche il cesellare la lingua ha un
ruolo in questa storia, come Murakami l'aveva accostato all'arte di correre,
per l'autocontrollo che occorre nel mettere in fila le parole giorno dopo
giorno. Ed Eugenio lo fa: legge i miti nordici, inventa storie, scrive le sue
impressioni su un taccuino.
Dal punto di vista stilistico, le anafore tornano spesso
dando ritmo, ma la ripetizione delle prime parole di una frase spezza un po’ il
flusso di una vicenda davvero magica e toccante, lontana dai sentimentalismi
che il “mettersi in piazza” può portare. Non una storiella mielosa alla
Garamellini dunque, ma piuttosto un’invenzione autobiografica cesellata nella
lingua con un lavoro di scalpello, che porta all’universalizzazione dei
personaggi e della vicenda, dei luoghi e del tempo. C’è poi un modismo
particolare dell'autore: la locuzione introduttiva “Succede poi che ...” che frastaglia
un po’ l'unità del periodo, ma ha la precisa funzione d’inserire il
protagonista nel suo presente.
È un buon esordio, con temi interessanti, intensi e mai
banali. Gardella ha saputo costruire una bellissima storia d’amore basata forse
ancora troppo su dati di realtà ma che ha ottime potenzialità. Sicuramente
sentiremo ancora parlare di questa nuova voce della narrativa genovese.
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