Partiamo da una considerazione dello stesso Fogwill: “Scene
da una battaglia sotterranea” non è un libro contro la guerra ma contro un modo
stupido di concepire la guerra, perché non si può scrivere contro la pioggia o
contro la neve. Non c’è nessuna connotazione ideologica in questo libro corale,
ma piuttosto la più cocente e cruda umanità. Alcuni lo hanno paragonato per
efficacia a “Il sergente nella neve” di Rigoni Stern ed è effettivamente così.
Non è l’esperienza dei patrioti, non c’è nessuna connotazione ideologica. Nel
1982 l’Argentina combatteva una guerra assurda per il dominio sulle Malvine
/Faulkland, isole fredde adatte solo ai pinguini e i cui pochi abitanti umani
non sono né argentini né inglesi ma un gruppo quasi autonomo, isolato e
incerto, vicino al mito se non altro per il miraggio di una futura pace
indipendente dai maneggi politici delle grandi potenze. In questo scenario
desolato si svolge l’avventura degli “armadilli”, un distaccamento di soldati
che vive sottoterra e che, nel buio dei cunicoli, pensa alla propria
sopravvivenza scambiando merce con tutti, anche con il nemico, dato che a un
certo punto del conflitto, quando la fine sembra ormai prossima nel bene o nel
male, le carte si confondono e alcuni britannici si uniscono alle fila di
questi fantasmi che fantasmi non sono. Molti di loro sfiorano la leggenda
apparendo dal nulla in superficie, ma è soprattutto la loro umanità a essere in
gioco. Nella descrizione di una collettivizzazione forzata di qualsiasi
intimità, Fogwill non è mai retorico e la paura è al centro delle sue immagini
potenti che, senza essere una vera raccolta documentaria, sono comunque la
testimonianza non solo di un momento storico, ma anche del sentimento di un
popolo che vede sfumare una bolla d’illusioni. La letteratura – trasformata in
autore / personaggio – è una missione (o meglio una vocazione) deve assumersi
il pesante onere di raccogliere questo sentire comune per giungere alla reale
comprensione dei meccanismi interni della società.
lunedì 16 novembre 2015
mercoledì 19 agosto 2015
CRIMINALI DA STRAPAZZO
CRIMINALI
DA STRAPAZZO è un film del 2000 firmato Woody Allen.
Niente di nuovo. Ray (Woody Allen) è un ladro che vuole continuare la sua
“carriera” e progetta di rapinare una banca scavando un tunnel usando un
negozio di biscotti come copertura ma la ricetta della moglie Frenchy (Tracey
Ullman) ha un enorme successo e, mentre il colpo va a monte, la coppia diventa
ricca con una produzione dolciaria in franchising. Niente di nuovo (Non c’era qualcosa di simile
addirittura con Totò?. Tutto si regge quindi sulla comicità del duo Allen
/Ullman che in America è sinonimo di sicure risate – tanto da avergli fatto
aggiudicare il National Sociaty of Critics Award. Il film è indubbiamente
brillante, ricco di sarcasmo. Ray e Frenchy sono i classici parvenue, nuovi borghesi
con una casa troppo kitsch e vestiti troppo vistosi. Frenchy su accorge del gap
culturale e si affida al mercante d’arte e mecenate spiantato in cerca di denaro David (Hugh Grant – che come al solito
è più bello che espressivo!) per affinare il vocabolario e farsi dare qualche lezione
d’arte, musica, teatro, letteratura e persino gastronomia … per poi completare
la formazione in Europa, ma tutto precipita quando lei scopre di essere stata
truffata. I contabili hanno lasciato un mare di debiti e la Sunset Interprise
deve dichiarare bancarotta.
Ray intanto ha tentato un nuovo colpo
con la complicità della cugina di Frances, May (Elaine May – altra spalla
comica d’eccezione, esilarante nel ruolo della svampita).
Una piccola nota sull’arte all’interno del
film: tutti i riferimenti citati sono corretti tranne quello a Damon Dexter una
presunta scoperta di David Grant. Ci si potrebbe divertire a scrivere un
commento sui quadri astratti di questo autore dalle pennellate decise e
materiche che, con una scelta cromatica limitata, avvicina il pubblico all’essenza
della natura trasmettendone al contempo l’urgenza fenomenologica.
Altra parentesi interessante riguarda la
traduzione del titolo originale, SMALL-TIME CROCKS con “Criminali da Strapazzo”
quando forse la versione più letterale sarebbe stata qualcosa come “Le bugie
hanno le gambe corte”, anche se sarebbe stata di minor impatto. In ogni caso si perde l'assonanza tra "crocks" (bugie, sciocchezze) e "cookies" (biscotti)
Pur conservando l’osservazione della
società statunitense tipica dei film di Allen, questa pellicola non ha pretese
di spessore toccando invece buoni livelli di comicità.
domenica 16 agosto 2015
LAUREL CANYON
LAUREL CANYON di
Lisa Cholodenko non è un film memorabile. Alex e Sam arrivano alla casa della
madre, produttrice discografica, e si trovano a dover convivere con lei e con
la band che sta registrando un disco. Mentre Alex tenta di scrivere la propria
tesi di genetica (sulla drosofila), Sam inizia il tirocinio da psichiatra in un
ospedale e dà prova di umanità nel trattamento dei casi, ascoltando i pazienti
e non limitandosi a curarli con la terapia farmacologica.
Alex
però è sempre più coinvolta in una storia a tre con Ian e la madre di Sam
mentre lui comincia a provare attrazione per Sarah, una collega giunta da
Israele per uno scambio.
Ci sono
dunque alcubi spunti che però non vengono sfruttati a dovere perdendosi nel
pastiche vacanziero. Il primo punto, quello più evidente nelle parole stesse
dei personaggi è la dicotomia STIMOLANTE /NON STIMOLANTE: poco padrona della
lingua, Sarah definisce il lavoro scientifico di Alex “non stimolante” come
sinonimo di accademico e noioso; al contrario la vita sregolata dei musicisti e
di Jane pare stimolante per la ragazza che non ha mai imparato a lasciarsi
andare (ma il lasciarsi andare è qualcosa che s’impara?). Il discrimine è tra
normalità e sregolatezza, senso di realtà e voglia di fuga. Laurel Canyon è
quindi un luogo fisico ma soprattutto una parentesi nella quale tutto può
cambiare. Questo si riflette anche su Sam, attraverso il suo lavoro e il suo
rapporto con l’Altra che viene in parte sublimato da uno slittamento platonico,
parlato e poco agito.
L’aspetto
antropologico dell’incontro tra la cultura ebraica e quella statunitense resta
solo implicito e non ha seguito, tanto che si riduce a un dettaglio sullo
sfondo.
Gli
attori non sono da ricordare se non la grande Frances Mc Dormand (Jane) che,
col suo tocco, rende degna anche la storia più insulsa. Per il resto il cast
non annovera nomi di rilievo, se non si considerano i blockbusteroni degli
ultimi anni. Christian Bale (Sam) è espressivo come una melanzana e anche
Benkinsale (Alex), reduce dai vari “Underworld” è solo di poco sopra la sufficienza.
Il film
si propone da subito come una riedizione di “Almost Famous” e, se non centra
assolutamente l’obiettivo, ha comunque una buona colonna sonora alternative
pop, in cui spiccano Mercury Rev e T-Rex oltre ad alcuni brani originali composti e cantati da Alessandro Nuvola(Ian).
martedì 11 agosto 2015
MOONRISE KINGDOM
MOONRISE KINGDOM è
un’altra piccola perla di Wes Anderson, impreziosita dalla co-produzione di
Roman Coppola e da un grande cast. Il luogo è l’isola immaginaria di New
Penzence, l’anno è il 1965. Sam Shakusky è uno scout di dodici anni che decide
di dimettersi per tentare una rocambolesca fuga d’amore con la sua amica di
penna Suzy Bishop, ragazzina disadattata che nella recita parrocchiale su Noè ha
il ruolo del corvo. Il ragazzo è matto o solo incompreso? Dopo la fuga, compare
sulla scena la terribile Servizi Sociali, caratterizzata come una strega e le
cose si complicano perché nonostante fosse impopolare, Sam era comunque parte
della truppa dei Khaki Scout e come tale va aiutato nel momento del bisogno
quindi tutti i suoi compagni si uniscono per salvarlo da un possibile
elettroshock e dall’affidamento a un “rifugio per giovani” che è l’equivalente
di un riformatorio.
Il film
fa riflettere su diversi grandi temi della sociologia. Innanzitutto ruolo della
famiglia nell’educazione dei figli. Infatti, Sam potrebbe avere dei problemi
relazionali perché i suoi genitori sono morti e da diversi mesi vive in una
casa che non lo accoglie davvero per quello che è e da dove viene scacciato non
appena si manifestano delle difficoltà. Come Ed e Al in FullMetal Alchemist, il
bambino non ha più un posto in cui tornare e deve contare solo sulle proprie
capacità di Lupetto. Tale certificazione e l’entrata in scena di Servizi
Sociali, dello Sceriffo Sharp (Bruce Willis) e del Capo Scout Word (Edward
Norton) mostra l’importanza e le carenze dell’autorità esterna nella
costruzione della personalità. Suzy ha
una famiglia apparentemente normale (Bill Murray e Frances McDormand)– anche se
c’è dell’ironia nella caricatura della “famiglia numerosa” – ch vive al capo
estremo dell’isola e dunque in un posto molto difficile da raggiungere e nel
quale i punti di riferimento sono per forza di cose interni. Per questo motivo
la fuga verso una nuova avventura e verso gli spazi aperti si prospetta come
unica alternativa all’autolesione – che è la forma estrema di
autoreferenzialità in un circolo chiuso (vizioso) e non solo un capriccio della
moda emo del momento. Un appunto sui cognomi: Sharp, il poliziotto dell’isola
che indaga sulla sparizione dei due e sull’aggressione al capo della fazione
scout che, embedded rispetto al potere dominante degli adulti, segue le tracce
dei due fuggiaschi e li considera nemici; Word come “parola” fa pensare al
roulo fondamentale che essa ha nella formazione; Bishop “Vescovo” rimanda
direttamente all’autorità
Lo
spazio è definito dalla cartografia di una mappa ipotetica come in “Lo
Straordinario viaggio di T. S. Spivet” in cui è proprio il percorre il
territorio a strutturare la strada di volta in volta, ma qui si aggiunge la
leggenda dell’antico sentiero della migrazione del popolo indiano dei Chickchaw
che legittima la coscienza collettiva quanto il rapporto con l’ambiente
specifico si lega all’individuo. Così gli espedienti narrativi si rifanno
all’antropologia e all’arte, da un lato il diario di Word; dall’altro l’uso di
quadri e vetrate come scenari in cui inserire i personaggi.
lunedì 10 agosto 2015
RUTH & ALEX
RUTH E ALEX è una
splendida commedia diretta da Richard Loncraine. Alex (Morgan Freeman) è un
artista di settant’anni. Passeggia nel suo quartiere e ne gusta i piccoli riti,
i luoghi, le persone. Tuttavia qualcosa sta cambiando: la civiltà del nuovo
millennio porta supermercati biologici e Apple Store, la gestione di una
galleria d’arte equivale a quella di un’impresa con il curatore come
amministratore e i protagonisti si ritrovano anziani. È sempre più difficile
fare le scale e così i due decidono di vendere l’appartamento attraverso l’agenzia
della nipote Lily che organizza una “visita libera” proprio nel giorno in cui
un allarme terrorismo blocca il ponte che porta a quella zona della città; ma
nulla ferma il mercato – nonostante la Crisi – e la casa si riempie di gente. Alcuni
sono solo curiosi, altri fanno un’offerta scatenando un balletto di cifre senza
considerare il valore sentimentale di ciascuna stanza. I ricordi di Alex
tornano a galla mentre guarda i propri quadri e la vista dalla finestra del suo
studio. “Forse io e Ruth abbiamo avuto tutte le viste della nostra vita. Forse le
viste sono per i giovani che hanno qualcosa da guardare.” dice lui, ma il
vissuto entra in ogni momento arricchendolo di significato anche nel presente.
Quarant’anni prima aveva dipinto un nudo usando Ruth (Diane Keaton) come modella. Per il
tratto e la scelta cromatica, è un’opera in bilico tra Espressionismo e
Realismo mentre i paesaggi hanno qualcosa del Precisionismo industriale
americano di Earle, influenzate dall’insieme armonico di palazzi e ciminiere che
si nota oltre il davanzale. Poi si dedicherà a un ultimo ritratto, quello della
moglie di adesso e gli edifici saranno lo sfondo per il suo personale progetto
di “urban farming” con le paintine di pomodoro i cui frutti costano circa nove
dollari l’uno! Mentre la loro cagnolina si trova all’ospedale veterinario –
condividendo il destino dei padroni – anche
la coppia partecipa a una visita, per cercare un posto nuovo che non sia a
milioni di miglia dal loro mondo e prendere in mano la situazione – il che
significherà restare ancora per un po’ nella vecchia casa, annullando le
trattative. Variando gli scenari, si ripresentano gli stessi personaggi: la
scrittrice e la bambina con la madre che prova camere da letto e soggiorni
luminosi. La luce e la metropoli sono aspetti fondamentali del film perché
attraverso gli occhi di Alex (e quelli di Ruth) il globale si riduce a locale
dando vita a ciò che i sociologi hanno chiamato “glocale” fino all’estrema propaggine
rappresentata dalla caccia all’uomo contro il sospetto terrorista musulmano. Dall’11
settembre, negli U.S.A. resta una paura connaturata del diverso che spinge a
dipingere come mostri tutti coloro che appartengono a una differente comunità. Nella
pellicola, questa frattura culturale è messa in parallelo con quella degli anni
Settanta statunitensi, nei quale in molti stati i matrimoni misti erano
illegali o erano guardati con diffidenza.
giovedì 6 agosto 2015
INSIDE MAN di Spike Lee
INSIDE MAN di
Spike Lee è un buon polizesco tirato, carico d’azione ma che risente un po’
(forse volutamente) dei cliché di genere, anche per via della fotografia con le
luci virate ai toni freddi come in “C.S.I N.Y.”. Una rapina in banca: nel come
c’è l’intoppo; e forse anche anche nel cosa dato che non è ben chiaro fino alla
fine. Si parla di soldi ovviamente ma solo per inciso perché il vero obiettivo
pare essere un altro: un fascicolo che coinvolge il fondatore della banca in
loschi traffici con i naziati per lucrare sui diamanti delle famiglie ebree. Un
peccato lontano ma, una volta venduta l’anima è impossibilw sfuggire ai propri
peccati. Esattamente come avveniva in “Dolls” di Takeshi Kitano o nel
Padrino - citato da Lee .
Il meccanismo
interessante, che rende TUTTI SOSPETTATI,
è che i rapinatori fanno indossare agli ostaggi delle tute e delle
maschere come le loro in modo da confondere le acque anche per lo spettetore,
che poi ascolta le interviste dei singoli presenti e si fa un’idea insieme agli
inquirenti. Il Deteective fraizer si ritrova a fare da nediatore (e Danzel
Washington è un ottimo interprete di film di questo tipo) tra i criminali e le
istituzioni mentre la società in toto sembra essere in discussione.Nel 2006, con i presupposti della crisi già
chiari, il sistema finanziario appare corrotto fin dalle fondamenta e i
cittadini non possono essere moralmente diversi dagli aggressori, che allora
smettono di essere perseguibili. Un’ottima Jodie Foster nella parte dell’algida
Miss White, che lavora per i poteri forti ossia l’amministratore delegato
Arthur Case. Con un gioco di parole “Quando scorre il sangue è il momento in
cui a New York qualcuno finisce in galera” e così, quando la storia sembra
arrivare alla conclusione il “caso” (Case) è chiuso.
martedì 4 agosto 2015
IO & ANNIE
“IO & ANNIE” è forse il film più famoso di Woody
Allen. E a ragione.
La battuta è tutta affidata alla sagacia
di un sottile umorismo ebreo che rispecchia la realtà della classe media
newyorkese. C’è però la squisita variante del protagonista che esce da sé e
trascina lo spettatore nel racconto.
Visto in retrospettiva, nel ciclo
dedicato agli anni Settanta, il colore è particolarmente interessante se
rapportato all’ambientazione e si dovrebbe quindi confrontare con quello di
altre commedie del genere come ad esempio “Autumn in New York” con Richard Gere
e Winona Ryder.
I passaggi narrativi sono trasversali,
tagliando il tempo e lo spazio in due sezioni che potremmo definire “Prima di
Annie” e “Dopo Annie”. Alvy Singer è un comico da night club che viene lasciato
dalla fidanzata, Annie Hall, dopo una relazione di un anno. Ripensare alle fasi
del loro amore è come ripercorrere in chiave psicanalitica un momento della
vita, rivalutando anche il “prima” ossia il matrimonio con Allison, mentre un’altra
prospettiva – lo schermo si divide a metà quando i due parlano contemporaneamente
con i loro terapisti – consente di vedere le cose dal punto di vista che
dovrebbe essere sarcasticamente femminile ma risulta in effetti umoristico come
le gag di Migone con Claudio Bisio ai bei tempi di Zelig ( e il nome del
programma è un chiaro omaggio ad Allen!)
I cognomi non possono essere casuali:
Hall come ingresso in un mondo diverso, quello delle donne ma anche quello
della cultura medio-borghese; Portchnik a idicare un’origine immigrata probabilmente dall’Europa
dell’Est oltre a voler ricalcare un suono buffo come la città di Pokipisie nel
distretto di New York serviva da mantra rilassante a John nella serie “Ally
McBeal”; Singer non tanto e non solo come “cantante” – che è l’occupazione di
lei e non di lui – quanto come tipico cognome che non lascia dubbi sull’origine
ebrea del personaggio.
Ottima l’interpretazione di Diane
Keaton, che dovrò seguire in Ruth e Alex per trovare una pietra di paragone, e
che ha vinto un Golden Globe come miglior attrice sotto la regia da Oscar di
Allen.
martedì 17 marzo 2015
IN ALTRE PAROLE Jhumpa Lahiri
Guanda,
148 pp., 14 €
Jhmpa
Lahiri è una delle migliori voci del panorama statunitense contemporaneo ma in
questa raccolta di riflessioni si presenta per la prima volta nella veste
inedita di scrittrice in italiano. L’innamoramento e di avvicinamento alla
nostra lingua è un pellegrinaggio alla scoperta di una terra vergine, in cui si
distinguono stelle-guida sconosciute. Il processo la lascia con alcuni
importanti numi tutelari (Pavese, Moravia, Quasimodo e Saba) ma senza gli strumenti
del cesello letterario, consentendole di ritrovare il piacere primitivo di
confrontarsi con le parole in maniera imperfetta e con un approccio quasi
fisico alla sfida. Le metafore che legano lo sforzo pratico alla produzione
narrativa sono molto frequenti. Basti pensare a “L’Arte di Correre” di Haruki
Murakami in cui la disciplina della pagina è paragonata al podismo; e risalendo
la scala dei riferimenti più alti ci s’imbatte in autori che si sono cimentati
con il distacco dalla propria madrelingua. Da Conrad a Pessoa, che si rifugiava
nel lido sicuro del portoghese per reinventare se stesso fino a Michela
Marzano, che ha avuto bisogno della prospettiva esterna del francese per
affrontare i suoi problemi personali e trovare risposte. Perché ogni struttura
semantica crea una particolare dimensione e connessioni diverse attraverso le
quali leggere la realtà. Nel triangolo che unisce Calcutta, New York e Roma,
rimangono le da superare le difficili distanze dello stereotipo. In questi
articoli incontriamo un’alterità spaesata ma tenace, fresca e piacevolissima
che promette di crescere e di toccare sponde inaspettate.
mercoledì 4 marzo 2015
PROFESSIONE ANGELO CUSTODE Arto Paasilinna
Iperborea, 207 pp. € 15.50
L’ex insegnante di religione Sulo
Auvinen muore lasciando una vita tutto sommato mediocre: è goffo e impacciato e
da anni sopporta le sfuriate della moglie; ma trova la sua strada alla sede del
Paradiso che è stata dislocata a Kerimäki, in Finlandia, e dove tutto è
regolato come in un’azienda. Dopo un breve corso di formazione come angelo
custode, gli viene assegnata la protezione di Aaro Korhonen – uno scapolo
quarantenne che ha appena acquistato una caffetteria-libreria antiquaria nella
capitale. Lo zelo educativo di Sulo si traduce in una serie di disastri di
proporzioni quasi apocalittiche, quando il vecchio maestro si propone di
trovare l’anima gemella del suo assistito, pilotando la mente delle persone che
lo circondano. Le conseguenze di queste manipolazioni sono talmente
catastrofiche (e tragicomiche) da indurre le alte sfere infernali a
interessarsi a lui, complicando ulteriormente il quadro degli interventi
ultraterreni. Ma quanto davvero influisce l’elemento sovrannaturale nella vita
degli individui? Il ritmo è incalzante, ogni capitolo riserva una nuova
sorpresa, ma non si tratta di un libro leggero: c’è anzi una patina opacizzante
che, in alcuni momenti, inceppa un po’ la lettura. Tra carri funebri che si
ribaltano e salme rubate; scenate di gelosia, incedi e naufragi, Arto
Paasilinna torna a raccontare con ironia la bizzarra normalità dell’esistenza –
umana e celeste – attraverso una carrellata di personaggi irresistibili,
paesaggi e spunti letterari che sono sì legati al territorio e alla cultura
finlandese, ma consentono di riflettere sulla spiritualità.
mercoledì 4 febbraio 2015
SEMPLICEMENE GUTIÉRREZ Vicente Battista
Voland,
174 pp., 15 €
Chi è
Gutiérrez? Ghost writer per una casa
editrice, scrive romanzi su commissione celandosi dietro un reticolo di
pseudonimi e vive un’esistenza ordinaria, regolata dalle scadenze settimanali,
le passeggiate salutari e una dieta spartana. La sua personalità sembra
annullarsi e al contempo moltiplicarsi in questo dedalo, mentre lui colleziona
in un ripostiglio segreto i suoi libri e li rifodera, soltanto per consegnarli
a una sorta di oblio. Nulla si sa del
suo passato, che affiorerà – forse – nel romanzo autentico che pensa di
presentare per meritare un posto tra gli autori conosciuti che hanno diritto a
un nome e a una foto nell’ufficio del direttore; una verità che però già
trapela inconsapevolmente tra le righe delle sue storie. È un uomo solo, che
non ha amici se non l’immaginario contraltare dei suoi dialoghi
filosofico-letterari. Sfiorando "Budapest" di Chico Buarque, la scelta linguistica di Vicente Battista – apprezzato in
Argentina per la sagacia dei suoi racconti polizieschi, surreali quanto quelli
di Chesterton - è volutamente ossessiva, basata sulla ripetizione, per
accordarsi alla psicologia del personaggio che, nella banalità sistematicamente
quotidiana, conserva un lampo di ribellione, un istinto al bisogno di
consapevolezza: la sua ricerca degli oscuri “correttori” che giudicano, spiano
e modificano il suo lavoro lo spinge a cercare il luogo nel quale essi si
riuniscono. Sono figure inquietanti, leggendarie, talmente ligie alle norme da
diventare sovra-costrutto della censura, esattamente come per i Ciechi di
Ernesto Sábato, gli Invisibili di Haruki Murakami o i Signori Grigi di Michael
Ende .
giovedì 29 gennaio 2015
LA FABBRICA DELLA SPERANZA Lavanya Sankaran
Marcos
y Marcos, 430 pp., 17 €
Kamala e Anand sono le due facce di un’India che cambia:
una vita di lavoro umile e di sacrifici e l’industrializzazione che avanza. Lei
ha cercato impiego in città, nei cantieri edili e poi come domestica, con
un’incredibile determinazione: tutto per suo figlio Narayan che, lasciato a se
stesso, potrebbe prendere una cattiva strada; lui è un imprenditore ch si
confronta con i meccanismi oscuri della crescita miracolosa, alimentata dalla
corruzione dei politici. Entrambi sono il riflesso di un Paese diviso tra
modernità e antiche tradizioni: il progresso che ha le sue radici negli usi
atavici, con il sistema di caste che resiste sotto lo sfavillare delle feste dell’alta società e i riti
induisti che propiziano gli affari almeno quanto le bustarelle che devono
smuovere i meccanismi della burocrazia. Scissi tra questi estremi, i personaggi
si costruiscono nuove identità composite, cercando di accettarsi e farsi
accettare; e così si ritrovano a essere ibridi, con un futuro incerto. I
giovani sono la speranza di un avvenire radioso mentre la moglie di Anand è
costantemente insicura e l’uomo si rifugia nel rapporto d’amicizia con Kavika,
simbolo di svolta democratica. Le voci si alternano e s’intrecciano in una
narrazione ricca di figure emblematiche ma non si allontana dalla realtà
universale, anche se riportata sempre al particolare “esotico” del contesto, in
una trama in cui la concretezza internazionale delle relazioni commerciali fa da
contraltare alla psicologia individuale. Sankaran ci consegna un libro a metà
tra Swarup e Franzen, essenziale saggio delle dinamiche della globalizzazione.
Bangalore |
LA REGINA DELLE NEVI Micheal Cunningham
Bompiani, 284 pp. 18€
Tyler vorrebbe un’illuminazione che non arriva, vorrebbe
poter scrivere una canzone che lasci il segno , p forse vorrebbe solo avere uno
scopo per dare un significato alla propria vita; Barrett – che non sente il
bisogno di trascendenza, ma solo l’urgenza di trovare almeno una parvenza di
felicità, anche se sfuggente – ha quell’esperienza trascendente quasi per caso.
È una rivelazione che separa i fratelli invece di unirli, esattamente come Beth
è la creatura angelicata che li avvicina: è una madre, un amore ma è
soprattutto l’incarnazione della fragilità effimera dell’esistenza. Non c’è
nulla di eccezionale nel quotidiano di queste persone e persino l’uso di droghe
è un elemento che non pregiudica il loro inserimento in una piccola cerchia ai
margini del sistema. Ciascuno attraversa la sua crisi di mezza età senza troppi
clamori, lasciandosi scorrere addosso gli eventi, accogliendo gli eventi come
miracoli o scherzi di un dio burlone. Michael Cunningham arriva a trattare la
spiritualità come aspetto complementare di un’identità che si inserisce in un
quadro sociale più ampio. Ogni gesto è intrinsecamente politico ed è
inevitabile che la personalità dei personaggi si costruisca anche sulla base di
quanto avviene nel mondo. Dovranno
lasciare lo scenario di una casa-rifugio legata al passato per avventurarsi in
un nuovo spazio vuoto e verso un esterno condizionato da una massa insensata. Le
tensioni tra il Sé intimo e le relazioni, le micro-comunità e i cambiamenti di
un America al bivio si traducono in una lingua che è al contempo colloquiale e
poetica, impulsiva e riflessiva.
mercoledì 14 gennaio 2015
L'ESTATE IN CUI ACCADE TUTTO Bill Bryson
Sembra che ci siano anni pervasi da una strana forza creatrice, una corrente che potremmo definire “energia situazionale” che fermenta facendo incontrare i grandi personaggi, tutti sulla stessa scacchiera. Negli Stati Uniti, l’estate del 1927 è uno di questi momenti unici. Recentemente poi, la figura di Charles Lindbergh e il sogno del volo hanno conquistato il mondo dell’arte narrativa assumendo varie forme: il libro di Bill Bryson è tanto storicamente documentato quanto “Transatlantic”di Colum McCann è avventuroso e “La Moglie dell’Aviatore” di Melanie Benjamin è rosa. Con “L’Estate in cui Accadde Tutto”, l’autore ci guida in una carrellata di aneddoti, fatti e persone sempre sopra le righe che hanno modificato profondamente il volto dell’America e di tutto l’Occidente. Tornando sempre alla figura romantica e frustrata del pilota di Saint Louis, ciascun capitolo analizza un elemento del costume sociale degli Anni Ruggenti: il baseball e la boxe; la rivoluzione dei trasporti e i prodromi della crisi finanziaria; la letteratura e il cinema … Il lettore può quindi procedere in maniera lineare, per avere un quadro d’insieme, oppure dedicarsi soltanto alcuni aspetti ma troverà sempre qualche spunto indimenticabile e storie talmente incredibili che sopravanzano la fiction. L’effetto finale è quindi ambivalente: se l’estrema accuratezza della ricerca è senz’altro ammirevole, a volte rischia di diventare troppo puntigliosa, specie nei passaggi più tecnici. Nato in Iowa ma residente in Inghilterra, lo stile del giornalista coniuga il meglio delle due impostazioni anglosassoni in un racconto ironico e sottile.
martedì 6 gennaio 2015
FRIDA KAHLO E DIEGO RIVERA
AL PALAZZODUCALE di GENOVA, fino all'8 FEBBRAIO 2015
Diego e Frida. Lui completamente aperto al sociale e al
pubblico, lei rivolta all’introspezione, immersa in un universo privato.
“Dipingo me stessa perché è ciò che conosco meglio”, ha scritto nei sui diari. Non
si tratta di Surrealismo, ma di qualcosa di più profondo e intimo che
rappresenta una solitudine condita di macabra ironia attraverso i rincorrersi
dei simboli. La tradizione messicana a braccetto con una componente bianca
derivata dal padre tedesco. A partire dal tragico incidente che le spezza la colonna
vertebrale in tre punti e pregiudica per sempre la possibilità di essere madre,
l’autoritratto diventa per Frida un bisogno ossessivo di indagare gli stati
d’animo e i piccoli mutamenti di una vita quasi immobile. E poi il secondo
“incidente”: l’incontro con Diego Rivera e l’amore travolgente che dà senso e
disperazione a un’esistenza intera. I due sono complementari. Lui, artista già
affermato, ha alle spalle gli studi accademici, i viaggi in Europa (in Italia e
a Parigi), le influenze dei più grandi artisti di quell’effervescente debutto
del secolo. Lei è un’autodidatta dalla tecnica imperfetta ma il suo stile
rivela un’energia comunicativa non comune. La loro è una relazione basata sui
sensi e sui colori, sull’immagine prima ancora che sulla condivisione.
Fin
dall’inizio, i due si mettono in posa, diventando icone del loro tempo, oltre
che portatori di una bandiera politica. Frida è la musa che compare in molti
murales del marito, accanto a una miriade di altri personaggi, in un pantheon
stratificato di significati ideologici; Diego è il centro dell’universo per la
Kahlo, che lo trasforma in padre, madre, amante, idea fissa. Una carrellata di
fotografie, scattate da grandi maestri dell’obiettivo – tra i quali anche Nickolas
Muray che il Ducale sta ospitando con una monografica –, coglie immortala i
coniugi insieme o separatamente inaugurando la logica mediatica dell’immagine
pop.
La mostra del Palazzo Ducale di Genova – aperta sino all’8 di febbraio 2015 – esplora il
rapporto tra le due voci più celebri dell’arte latino-americana proponendo una
ricca selezione di opere di entrambi. Particolarmente interessante la sezione
dedicata a Rivera, con numerosi lavori su tela, schizzi e un bel video che
mostra i dipinti murali in tutta la loro imponenza. Si tratta perciò di un
percorso complementare rispetto a quello dell’esposizione romana, che era
invece incentrata sul lato femminile della coppia, spostando l’accento
sull’aspetto psicologico dell’atto creativo. Il paragone tra le tappe italiane
dell’evento sono possibili solo in parte, e forse per rilevare carenza
dell’esposizione genovese: nonostante gli ottimi pannelli esplicativi, manca un
riferimento diretto al corollario dal quale è germogliato il talento espressivo
di Frida. Ma le brillanti conferenze, gli approfondimenti e
le proiezioni speciali colmano in parte
questa lacuna. Unica pecca dunque è la carrellata di abiti tipici che Frida
soleva indossare, ma la sfilata sui manichini nelle loro teche in piccolo
spazio al finale appare troppo statica.
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