giovedì 14 novembre 2013

PENELOPE ERA UN'ILLUSA? (incontro con Michela Marzano)


 
Il discorso di Michela Marzano sull’amore mi ha fatto venir voglia di scrivere qualcosa a riguardo.

“Amare è dare ciò che non si ha a chi non lo vuole” sosteneva Jacques Lacan e questo è il punto centrale del libro della Marzano. Quando teniamo a qualcuno, proiettiamo i nostri bisogni e quidi cerchiamo di dare ciò che a noi manca e che vorremmo ricevere. Dunque, c’è sempre una certa incomunicabilità nel rapporto, perché è ovvio che l’altra persona non rispecchi i nostri bisogni ed è nell’accettazione reciproca che si apre uno spiraglio di libertà attraverso il quale si può riconoscere e accettare il cambiamento – sia in sé stessi che nel prossimo. Freud ci insegna che la”scelta” di un compagno è guidata da una sorta di ripetizione, cioè dalla volontà di ricreare una relazione perduta che ci possa completare. La psicanalisi mostra però che il vuoto è qualcosa di connaturato alla struttura umana e che perciò non esiste una complementarietà perfetta che possa “curare” certe ferite. È in quest’ottica che bisognerebbe rivalutare l’idea della fedeltà come valore. Nessuno è in grado di promettere l’eterna fedeltà intellettuale perché, secondo una massima di Nietzsche, “Non si può promettere qualcosa che ha a che fare con la sfera del essere e non con quella del fare: altrimenti sarebbe come sminuire il sentimento a una mera serie di gesti”. È però plausibile impegnarsi a essere sinceri, ossia segnalare il cambiamento e renderne partecipe il partner. Quante volte sentiamo la frase: «Siamo cresciuti in modo diverso» per giustificare la fine di una storia? Se l’amore per una persona è destinato a svanire, il sentimento rimane come elemento che ha plasmato la nostra identità, ovvero finisce lo stato di innamoramento ma perdura il senso più essenziale della nostra esperienza. E qui dovremmo cominciare una riflessione sulla scorta di Javier Marías sull’innamoramento universalmente considerato positivo ma che spesso diventa il paravento per giustificare qualsiasi bassezza. Secondo l’autore spagnolo “Non è mai possibile conoscere la verità nei dettagli” perché si presenta aggrovigliata, non lineare. Scontrandoci con il quotidiano, dovremmo abbandonare gli ideali che ci siamo costruiti fin da bambini – i miti stucchevoli del Principe Azzurro e la Principessa Rosa – e calarci nella realtà. In un contesto meno zuccheroso, senza i fronzoli della leggenda si cala nel quotidiano, sporcandosi ma diventando al contempo più utile e meno pericoloso, meno violento. L’unica soluzione percorribile è accettare le nostre mancanze come simili e parallele alle mancanze dell’altro e così imparare a vedere nuove possibilità laddove prima non avremmo neppure cercato.  

È qui che l’autrice – docente di filosofia alla Sorbona – si ricollega alla figura archetipica di Penelope, la moglie devota che si è illusa che nulla fosse mutato nei quindici libri di assenza dal poema e solo dopo si accorge fatalmente che non è così e che suo marito è sì tornato da un periplo lungo vent’anni, ma lei non ha vinto perché non ha più lo stesso uomo.

Allora la tela – simbolo del controllo – non è servita a fermare il tempo e a eterizzare le caratteristiche di una situazione passata: Ulisse vuole ripartire perché il suo scopo è la conoscenza e non tanto il mantenimento del nucleo famigliare che lei aveva tanto difeso ingannando i Proci e impedendo loro di prendere il potere.  Nella decostruzione del mito della fedeltà coniugale, è interessante menzionare alcune tradizioni più tarde rispetto a Omero, che dipingono un personaggio del tutto diverso, quasi opposto: secondo alcuni, durante la lunga assenza di Ulisse, la donna si concesse al dio Ermes diventando madre di Pan; altri concludono il mito con il ripudio da parte del marito (analogo alla fredda decisione di Rama dopo aver riscattato la sua sposa, Sita); altri ancora sostengono che dopo la morte del marito, lei avesse sposato Telegono, figlio dello stesso Ulisse e di Circe.

Il canto del poeta ha dato a Penelope quell’immortalità che la gelosa Calypso le negava ma è rimasta legata alla memoria: la sua tela non è solo un mezzo per fare e disfare lo Spazio – creando un rifugio tutto per sé, alla maniera di Virginia Woolf – ma serve anche a manipolare il Tempo; essa è una prigione che si compone delle maglie del ricordo. Si potrebbe quindi tornare a Marías (e a Shakespeare) citando l’estremo “Avrebbe dovuto morire più avanti” di Macbeth che in spiega sinteticamente il ruolo centrale che persino un defunto può assumere nella vita delle persone che gli sono rimaste legate. Questa idea allargata, permette di considerare non solo la Penelope-moglie ma anche la madre che si preoccupa del figlio.

Lungi dal voler tentare un’esegesi approfondita dell’Odissea, posso dire che Ulisse non è il solo a partire tornando poi diverso, più maturo o semplicemente più vecchio, inizialmente irriconoscibile persino agli occhi di colei che lo aveva tanto aspettato; anche Telemaco intraprende il suo personale viaggio di formazione lo fa passare dall’infanzia all’età adulta attraverso l’archetipo classico del rapporto conflittuale con il padre assente. Le sfumature della relazione genitoriale non si esauriscono in maniera ovvia nella figura del principe: in primo luogo se Telemaco è doppiamente abbandonato - prima negato dal padre e poi spodestato dagli estranei che occupano la reggia – certo non se la passa meglio il suo fratellastro Telegono che s’imbarcherà a sua volta in un viaggio alla ricerca del padre (e di se stesso), dietro consiglio di Atena e sarà così destinato a compiere la profezia uccidendo Ulisse. C’è però un altro aspetto più contingente, in quanto spicca già nel poema omerico: l’amore di Penelope verso Odisseo non è l’eros passionale, ma piuttosto un’attesa affettuosa – rappresentato ancora una volta dal lavoro paziente al telaio – simile alla pazienza che si prova per un figlio che un giorno diventerà “prodigo” (ma che fine fa poi il famoso figliol prodigo?). D’altra parte, la sola “Telemachia” non basta per spiegare l’evoluzione caratteriale tipica della giovinezza, un’evoluzione che è simile a quella del padre – votato alle peregrinazioni malinconiche e avventurose – e che trova il suo contraltare nella maturità sentimentale di Nausicaa.

Claudio Magris, sulla scorta di molti commentatori contemporanei, trova nella principessa dei Feaci una purezza che deriva da quella mancanza di dominio che, non alterando il rapporto amoroso, lo lascia nel regno delle possibilità, ma alcuni elementi chiudono un cerchio che altrimenti resterebbe incompleto: fonti più tarde parlano di Persepolis (o Ptoliporthus), forse nato da Telemaco e Nausicaa. La storia non si conclude nei ventiquattro libri dell’Odissea, perché Ulisse resta ben poco tempo a Itaca riprendendo poi il mare verso il Regno dei Tesproti, dove sposò Callidice ed ebbe nuova discendenza.

Le eventuali domande da porre nel prossimo incontro letterario verteranno quindi sulle figure dimenticate nel racconto ufficiale.