giovedì 29 gennaio 2015

LA FABBRICA DELLA SPERANZA Lavanya Sankaran



Marcos y Marcos, 430 pp., 17 €

Kamala e Anand sono le due facce di un’India che cambia: una vita di lavoro umile e di sacrifici e l’industrializzazione che avanza. Lei ha cercato impiego in città, nei cantieri edili e poi come domestica, con un’incredibile determinazione: tutto per suo figlio Narayan che, lasciato a se stesso, potrebbe prendere una cattiva strada; lui è un imprenditore ch si confronta con i meccanismi oscuri della crescita miracolosa, alimentata dalla corruzione dei politici. Entrambi sono il riflesso di un Paese diviso tra modernità e antiche tradizioni: il progresso che ha le sue radici negli usi atavici, con il sistema di caste che resiste sotto lo sfavillare  delle feste dell’alta società e i riti induisti che propiziano gli affari almeno quanto le bustarelle che devono smuovere i meccanismi della burocrazia. Scissi tra questi estremi, i personaggi si costruiscono nuove identità composite, cercando di accettarsi e farsi accettare; e così si ritrovano a essere ibridi, con un futuro incerto. I giovani sono la speranza di un avvenire radioso mentre la moglie di Anand è costantemente insicura e l’uomo si rifugia nel rapporto d’amicizia con Kavika, simbolo di svolta democratica. Le voci si alternano e s’intrecciano in una narrazione ricca di figure emblematiche ma non si allontana dalla realtà universale, anche se riportata sempre al particolare “esotico” del contesto, in una trama in cui la concretezza internazionale delle relazioni commerciali fa da contraltare alla psicologia individuale. Sankaran ci consegna un libro a metà tra Swarup e Franzen, essenziale saggio delle dinamiche della globalizzazione.

Bangalore

LA REGINA DELLE NEVI Micheal Cunningham

Bompiani, 284 pp. 18€



Tyler vorrebbe un’illuminazione che non arriva, vorrebbe poter scrivere una canzone che lasci il segno , p forse vorrebbe solo avere uno scopo per dare un significato alla propria vita; Barrett – che non sente il bisogno di trascendenza, ma solo l’urgenza di trovare almeno una parvenza di felicità, anche se sfuggente – ha quell’esperienza trascendente quasi per caso. È una rivelazione che separa i fratelli invece di unirli, esattamente come Beth è la creatura angelicata che li avvicina: è una madre, un amore ma è soprattutto l’incarnazione della fragilità effimera dell’esistenza. Non c’è nulla di eccezionale nel quotidiano di queste persone e persino l’uso di droghe è un elemento che non pregiudica il loro inserimento in una piccola cerchia ai margini del sistema. Ciascuno attraversa la sua crisi di mezza età senza troppi clamori, lasciandosi scorrere addosso gli eventi, accogliendo gli eventi come miracoli o scherzi di un dio burlone. Michael Cunningham arriva a trattare la spiritualità come aspetto complementare di un’identità che si inserisce in un quadro sociale più ampio. Ogni gesto è intrinsecamente politico ed è inevitabile che la personalità dei personaggi si costruisca anche sulla base di quanto avviene nel mondo.  Dovranno lasciare lo scenario di una casa-rifugio legata al passato per avventurarsi in un nuovo spazio vuoto e verso un esterno condizionato da una massa insensata. Le tensioni tra il Sé intimo e le relazioni, le micro-comunità e i cambiamenti di un America al bivio si traducono in una lingua che è al contempo colloquiale e poetica, impulsiva e riflessiva. 





mercoledì 14 gennaio 2015

L'ESTATE IN CUI ACCADE TUTTO Bill Bryson

 Guanda, 553 pp., 19,50 €


Sembra che ci siano anni pervasi da una strana forza creatrice, una corrente che potremmo definire “energia situazionale” che fermenta facendo incontrare i grandi personaggi, tutti sulla stessa scacchiera. Negli Stati Uniti, l’estate del 1927 è uno di questi momenti unici. Recentemente poi, la figura di Charles Lindbergh e il sogno del volo hanno conquistato il mondo dell’arte narrativa assumendo varie forme: il libro di Bill Bryson è tanto storicamente documentato quanto “Transatlantic”di Colum McCann è avventuroso e “La Moglie dell’Aviatore” di Melanie Benjamin è rosa. Con “L’Estate in cui Accadde Tutto”, l’autore ci guida in una carrellata di aneddoti, fatti e persone sempre sopra le righe che hanno modificato profondamente il volto dell’America e di tutto l’Occidente. Tornando sempre alla figura romantica  e frustrata del pilota di Saint Louis, ciascun capitolo analizza un elemento del costume sociale degli Anni Ruggenti: il baseball e la boxe; la rivoluzione dei trasporti e i prodromi della crisi finanziaria; la letteratura e il cinema … Il lettore può quindi procedere in maniera lineare, per avere un quadro d’insieme, oppure dedicarsi soltanto alcuni aspetti ma troverà sempre qualche spunto indimenticabile e storie talmente incredibili che sopravanzano la fiction. L’effetto finale è quindi ambivalente: se l’estrema accuratezza della ricerca è senz’altro ammirevole, a volte rischia di diventare troppo puntigliosa, specie nei passaggi più tecnici. Nato in Iowa ma residente in Inghilterra, lo stile del giornalista coniuga il meglio delle due impostazioni anglosassoni  in un racconto ironico e sottile. 

martedì 6 gennaio 2015

FRIDA KAHLO E DIEGO RIVERA

AL PALAZZODUCALE di GENOVA, fino all'8 FEBBRAIO 2015


 
Diego e Frida. Lui completamente aperto al sociale e al pubblico, lei rivolta all’introspezione, immersa in un universo privato. “Dipingo me stessa perché è ciò che conosco meglio”, ha scritto nei sui diari. Non si tratta di Surrealismo, ma di qualcosa di più profondo e intimo che rappresenta una solitudine condita di macabra ironia attraverso i rincorrersi dei simboli. La tradizione messicana a braccetto con una componente bianca derivata dal padre tedesco. A partire dal tragico incidente che le spezza la colonna vertebrale in tre punti e pregiudica per sempre la possibilità di essere madre, l’autoritratto diventa per Frida un bisogno ossessivo di indagare gli stati d’animo e i piccoli mutamenti di una vita quasi immobile. E poi il secondo “incidente”: l’incontro con Diego Rivera e l’amore travolgente che dà senso e disperazione a un’esistenza intera. I due sono complementari. Lui, artista già affermato, ha alle spalle gli studi accademici, i viaggi in Europa (in Italia e a Parigi), le influenze dei più grandi artisti di quell’effervescente debutto del secolo. Lei è un’autodidatta dalla tecnica imperfetta ma il suo stile rivela un’energia comunicativa non comune. La loro è una relazione basata sui sensi e sui colori, sull’immagine prima ancora che sulla condivisione.
 


Fin dall’inizio, i due si mettono in posa, diventando icone del loro tempo, oltre che portatori di una bandiera politica. Frida è la musa che compare in molti murales del marito, accanto a una miriade di altri personaggi, in un pantheon stratificato di significati ideologici; Diego è il centro dell’universo per la Kahlo, che lo trasforma in padre, madre, amante, idea fissa. Una carrellata di fotografie, scattate da grandi maestri dell’obiettivo – tra i quali anche Nickolas Muray che il Ducale sta ospitando con una monografica –, coglie immortala i coniugi insieme o separatamente inaugurando la logica mediatica dell’immagine pop.

 
 
 
 
La mostra del Palazzo Ducale di Genova – aperta sino all’8 di febbraio 2015 – esplora il rapporto tra le due voci più celebri dell’arte latino-americana proponendo una ricca selezione di opere di entrambi. Particolarmente interessante la sezione dedicata a Rivera, con numerosi lavori su tela, schizzi e un bel video che mostra i dipinti murali in tutta la loro imponenza. Si tratta perciò di un percorso complementare rispetto a quello dell’esposizione romana, che era invece incentrata sul lato femminile della coppia, spostando l’accento sull’aspetto psicologico dell’atto creativo. Il paragone tra le tappe italiane dell’evento sono possibili solo in parte, e forse per rilevare carenza dell’esposizione genovese: nonostante gli ottimi pannelli esplicativi, manca un riferimento diretto al corollario dal quale è germogliato il talento espressivo di Frida.  Ma  le brillanti conferenze, gli approfondimenti e  le proiezioni speciali colmano in parte questa lacuna. Unica pecca dunque è la carrellata di abiti tipici che Frida soleva indossare, ma la sfilata sui manichini nelle loro teche in piccolo spazio al finale appare troppo statica.