martedì 6 dicembre 2016

CROCEVIA Yoshihiro Tatsumi




“Crocevia” è un'antologia di raccont grafici che mostrano la solitudine della vita nella grande città. Pubblicati in origine nel 1970 sul settimanale GARO, baluardo del movimento geki-ga, questi sei lavori del maestro Tatsumi sono un ottimo esempio del fumetto giapponese più adulto e indipendente, destinato a un pubblico maturo e in contrapposizione con la corrente mainstream. Se dovessimo cercare un paragone con il fermento culturale italiano, potremmo forse accostarlo al teatro-canzone di Giorgio Gaber. Sono gli anni della “Donna di Sabbia”, libro immortale di Abe Kobo trasposto in un premiato film nel 964. Nel romanzo si descriveva metaforicamente l'isolamento individuale patito nel “deserto di Tokyo”. Lo stesso vale per i disegnatori delle “immagini drammatiche” , cui Coconino dedica una raffinata collana, essenziale per conoscere un aspetto nascosto e interessante della cultura nipponica degli anni Sessanta e Settanta., il primo di quattro volumi che svelano gli snodi della crescita artistica di Tatsumu. Curioso cercare di stabilire se si possa tracciare un parallelismo tra questa raccolta e l'ultimo libro di Mario Vargas Llosa con lo stesso titolo. Lo scrittore peruviano ambienta la sua nuova storia nella Lima di Fujimori ma il clima di isolamento urbano è forse simile
La maggior parte degli episodi ha il taglio autobiografico di “Vita ai Margini” summa totale dell'opera di Tatsumi con il taglio dolente e asciutto, ricco di sottotesti celati dal messaggio grafico- testuale. È una svolta nella nella carriera del mangaka che riaccende la sua passione per il geki-ga dando voce aireietti di una società che si vuole omogenea.

L'AUTORE

Yoshihiro Tatsumi (Osaka, 10 giugno 1935) è un fumettista giapponese ampiamente citato come iniziatore del genere di fumetti conosciuto come gekiga, termine coniato nel 1957.
Le sue opere sono state tradotte in varie lingue, e la casa editrice canadese Drawn and Quarterly ha avviato un progetto di pubblicazione in raccolte annuali della sua intera opera, iniziando dai primi lavori del 1969, a cura del cartoonist americano Adrian Tomine.
Tatsumi ha ricevuto il Japan Cartoonists Association Award nel 1972, mentre nel 2009, è stato premiato con il Tezuka Osamu Cultural Prize per la sua autobiografia, intitolata A Drifting Life. Per la stessa opera gli sono stati riconosciuti inoltre vari premi Eisner.
Nel 2011 è stato distribuito un lungometraggio d’animazione basato sulla sua vita e su sue alcune storie brevi. Il film, intitolato Tatsumi, è diretto da Eric Khoo

giovedì 3 novembre 2016

SHIRLEY Kaoru Mori


 
Kaoru Mori era ospite d’onore al cinquantesimo Lucca Comics. L’autrice, interessata alla Storia, presenta al festival una nuova opera- “Shirley” – ambientata nell’Inghilterra edoardiana (1091-1910). Bennett Cranley è una ragazza di ventotto anni che gestisce un locale nel centro di Londra. A casa sua c’è una giovanissima cameriera, Shirley Madison che ha solo tredici anni ma è molto brava e zelante nelle faccende di casa. La loro vita procede così, in maniera tranquilla e divertente, come se non mancasse nulla a questa piccola felicità. Ed in effetti è così perché Bennett non sembra pensare all’amore, fino a quando arriva un pretendente dal passato a turbare, almeno in parte, la perfetta unità che si era creata. “Shirley” è un vecchio lavoro della Mori, che lo tiene nel cassetto dal 2003 e che oggi lo pubblica con l’aggiunta dei capitoli che sono apparsi nel corso degli anni sulla rivista “Fellows!”. Il tratto è quello morbido al quale l’autrice ci ha abituati e anche il tema riprende il mondo delle maid già esplorato in “Emma”, ma con una connotazione storica lievemente diversa, che ricorda un po i fasti dell’inizio di “Downton Abbey”, anche se con un’estrazione sociale differente. Shirley è un personaggio al quale ci si affeziona: è dolce e carina, responsabile ma ancora bambina; Bennett Cranley è una donna emancipata per la sua epoca, che decide in autonomia del suo destino. Come sempre la mangaka ci regala un prezioso spaccato della condizione femminile nelle varie epoche con una particolare cura dei dettagli. Qui si potranno ammirare scorci della moda dei primi del Novecento e atteggiamenti tipici di quel periodo. Una lettura consigliatissima a chi ha amato Emma, ma anche a chi si accosta per la prima volta alla Mori, magari venendo dal grande romanzo vittoriano.

I fortunati che sono stati a Lucca, potranno leggere “Shirley” in anteprima e in una prestigiosa variant edition con la copertina virata al marrone dorato. Tutti gli altri dovranno aspettare la fine di novembre per acquistare il volume con la copertina rosa.

 
 

venerdì 30 settembre 2016

SEI SEMPRE STATO QUI Eugenio Gardella



 
 
Per avere un figlio, Eugenio e Roberta affrontano un percorso doloroso, fatto di perdite: tante interruzioni di gravidanza,il fallimento della fecondazione assistita. È come il percorso dell'eroe che modifica se stesso attraverso l'esperienza Arrivano a un limite che richiede un gesto di resilienza, ma la capacità di assorbire il dolore senza spezzarsi porta  una grande crescita interiore. Dunque la saudade, la malinconia per qualcosa che poteva essere e non è stato, corrisponde agli appigli di quelle vie di roccia che Eugenio esplora interrogandosi sulle proprie possibilità dopo un intervento di ernia cervicale, sulle possibilità di essere padre dopo essere staro figlio e la possibilità di stare accanto a una donna che diventa madre.  Solo alla fine si affidano all'incertezza dell'adozione e approdano alla magica avventura di essere genitori volando dall'altra parte del mondo per incontrare Mario un bambino cambogiano di tredici mesi che, con la sua speranza, completa l'idea di famiglia. È un viaggio nello spazio e nel tempo, un regalo che non avrebbero avuto seguendo “il metodo tradizionale” . Non c'è differenza tra l'adozione e la paternità biologica: in tutti e due i casi si tratta di un piccolo marziano che piomba nel tuo mondo senza che ci siano istruzioni per l'uso, qualcosa che h  che fare con il lavoro manuale e con lo sforzo disciplinato della scrittura. Nel caso di Gardella c'è un elemento in più: il cammino verso l'ignoto di una cultura altra, la sensazione di una cesura violenta che però si trasforma istantaneamente in affetto istintivo. In genere si pensa all'emozione della maternità e non si considera il lato maschile, e per questo è un libro unico che coglie nel segno di un tema molto attuale, che tocca molte coppie italiane, segnate da leggi molto restrittive. Si intravede un'analogia tra il percorso verso la genitorialità e l'arrampicata, ma anche il cesellare la lingua ha un ruolo in questa storia, come Murakami l'aveva accostato all'arte di correre, per l'autocontrollo che occorre nel mettere in fila le parole giorno dopo giorno. Ed Eugenio lo fa: legge i miti nordici, inventa storie, scrive le sue impressioni su un taccuino.

Dal punto di vista stilistico, le anafore tornano spesso dando ritmo, ma la ripetizione delle prime parole di una frase spezza un po’ il flusso di una vicenda davvero magica e toccante, lontana dai sentimentalismi che il “mettersi in piazza” può portare. Non una storiella mielosa alla Garamellini dunque, ma piuttosto un’invenzione autobiografica cesellata nella lingua con un lavoro di scalpello, che porta all’universalizzazione dei personaggi e della vicenda, dei luoghi e del tempo. C’è poi un modismo particolare dell'autore: la locuzione introduttiva “Succede poi che ...” che frastaglia un po’ l'unità del periodo, ma ha la precisa funzione d’inserire il protagonista nel suo presente.

È un buon esordio, con temi interessanti, intensi e mai banali. Gardella ha saputo costruire una bellissima storia d’amore basata forse ancora troppo su dati di realtà ma che ha ottime potenzialità. Sicuramente sentiremo ancora parlare di questa nuova voce della narrativa genovese.

IL SUONO DELLA MONTAGNA Yasunari Kawabata


 

La famiglia di Shingo va in pezzi, fino a trasformarsi in un oganismo disfunzionale, diviso in tre gruppi: Shingo e la moglie Yasuko – i vecchi – simili quasi per natura; Fusako e le sue bambine, che vivono in un mondo diverso come se si fossero costruite un muro di benessere per dimenticare un uomo lontano e sofferente; e poi Kikuko e Shuichi, che vivono un momento difficile. Lui sta mantenendo un’amante, lei decide di abortire. È la crisi dei valori confuciani. Shingo non può nulla di fronte alla dissoluzione, guarda il mondo cambiare al ritmo delle stagioni e con la drammatica rapidità che solo la fine di un conflitto poteva imprimere a un Paese piegato. In tutto questo, l’uomo si lega sempre di più alla nuora, in un rapporto che da paterno si tinge di sfumature amorose – con il riferimento a un “nespolo” dal sapore allusivo e simbolico quanto quello shakespeariano. Un romanzo / elegia colto, delicato come pennellate di un dipinto tradizionale, fine come un haiku e del quale noi Occidentali difficilmente riusciamo a cogliere tutte le sfumature. Apparso nel 1949, all’indomani della fine della Guerra, “Il Suono della Montagna” è uno dei capolavori del maestro Yasunari Kawabata che mostra il compenetrare complementare della Natura nell’animo umano, regalando sfumature di poesia anche nelle parti più cupe con passaggi di rara bellezza.

martedì 27 settembre 2016

KAGAMI GA KITA -- LO SPECCHIO Rumiko Takahashi


 
 
Kagami ga kita – Lo Specchio” fa parte del “Rumic World”, l'antologia di storie brevi di Rumiko Takahashi. È qui che la “Principessa del manga” dà il meglio, creando una galleria di personaggi unici e divertenti con un pizzico di sovrannaturale come solo lei sa fare. Nelle serie lunghe spesso la vicenda diventa ripetitiva e “Rinne” è una ripetizione del popolare “Inuyasha”(1996); ma qui l'autrice sfoggia fin troppo il dono della sintesi: si vorrebbe leggere qualcosa in più sui ragazzi con lo specchio purificatore sulla mano o sul fumettista e la sua bambola che scaglia piccole e grandi maledizioni. C'è tanto materiale e a volte i racconti lasciano insoddisfatti, con la sensazione che i vorrebbe qualcosa di più, come avviene nella narrativa non disegnata. Ad esempio “Lo specchio” storia di due ragazzi che purificano il male attraverso lo specchio che hanno sul palmo della mano darebbe un ottimo spunto per un fumetto shônen mentre “Revenge Doll” ha alcuni elementi che ricordano “Death Note” ma con il tratto inconfondibile della nostra amata mastra. Sicuramente è il folclore giapponese a fornire una fiorente base per questo genere di short ma si distingue un'inventiva e uno stile unico e riconoscibilissimo – i fan noteranno alcune somiglianze tra i protagonisti maschili e i personaggi più famosi. “With Cat” è la declinazione ironica dell’amore letterario – nipponico e non solo – per i felini, che meriterebbe una digressione a sé: “Ushio e Tora” con un pizzico di “La ricompensa del gatto”; e infine il titolo più strambo, “Un fiore carino” storia di un fiore che dovrebbe essere attraente ma che la diretta interessata trova puzzolente.  Il volume è impreziosito da bellissime tavole a colori e dal finale intitolato “My Sweet Sunday”, scritto nel 2009 a quattro mani con il grande Mitsuru Adachi per festeggiare il cinquantennale di Weekly Shônen Sunday.

Un volume imperdibile per chi già ama la Takahashi ma anche per chi vuole avvicinarsi al mondo inconfondibile di questa grande autrice.   

mercoledì 21 settembre 2016

WISH YOU WERE HERE - SYD BARRETT E I PINK FLOYD Deninotti / Lenci


"Wish you were here” racconta i primi anni di una band che ha fatto la storia del rock, i Pink Floyd – così celebri che persino il sistema di scrittura automatica del PC li conosce! Sono gli anni della formazione quando quattro geniali ragazzi inglesi si incontrano e danno vita a un nuovo progetto. È qualcosa di inedito, mai sentito, che presto andrà sotto il nome “psichedelica”. Per rendere l’atmosfera onirica, Luca Lenci  sceglie tavole virate al rosa e un disegno nervoso, che trasmette bene anche il suono oltre che l’azione. Eccoci nella piovosa Londra, ecco le note storte di “Apples and Oranges”; e poi i dischi solisti di Syd Barrett, la sua mente caleidoscopica e la sua arte che non è solo votata alla musica ma anche alla pittura, in un humus culturale fertile d’idee. Dal 1965-69 c’è fermento nella capitale inglese. È anche il periodo d’oro dei Beatles, quando esce “Sgt. Pepper” e il mondo impazzisce per la filosofia indiana e i viaggi lisergici. È qui che si perde Syd, in un labirinto privato di sogni e d’incubi che lo porterà lontano dalla società. Com’è successo? Perché si è ritirato? Perché gli altri lo hanno lasciato solo? Domande senza risposta che lasciano discordia persino tra i biografi e alle quali Deninotti non tenta di rispondere concentrandosi più sull’aspetto artistico / pubblico che su quello umano ed emotivo.

È un bel libro per chi già conosce i Pink Floyd e vuole aggiungere una chicca alla propria libreria, consigliato però anche a chi ama le graphic novel e vuole accostarsi al questo pezzo della storia del rock
https://youtu.be/iJSIazpQZRg

venerdì 16 settembre 2016

MIA AMATA YURIKO Antonietta Pastore


“Mia amata Yuriko” è una storia d'amore ma anche una straordinaria testimonianza del Giappone all'epoca della guerra. In particolare, le pagine dedicate a Hiroshima sono forti, toccanti, intense senza essere sdolcinate. La vicenda è incredibile dal nostro punto di vista occidentale ma rispecchia gli usi nipponici di quel periodo: gli incontri combinati, l'obbedienza ai genitori, la posizione della popolazione nello sforzo bellico. Yuriko è la sorella della suocera di Antonietta ed era sposata con un militare della Marina; la loro è una grande intesa ma qualcosa non va e, finito il conflitto, con il Paese in ginocchio, i nodi vengono al pettine e il segreto verrà svelato solo in una lettera, quarant'anni dopo. Lo stile della Pastore è asciutto e lieve, con un'aura di giapponesità che fa sembrare tradotto il romanzo. L'autrice è una sorta di antropologa che con sguardo partecipante coglie le sfumature della cultura nella quale si trova immersa, benvoluta dalla famiglia ma oggetto di curiosità per la gente. Certo negli anni Ottanta si era abituati agli stranieri ma non al fatto che fossero integrati nella società. Dopo “Leggeri i passi sul tatami”, questo è un libro più compiuto – anche se comunque fresco – che mi sento di accostare al filone asiatico di Amélie Nothomb per la ia (forse eccessiva) vena sintetica, mentre la parte sull'esercito mi pare completi ciò che si legge in “Una Storia per l'Essere Tempo”
 
 

giovedì 15 settembre 2016

BAMBINI DI FERRO Viola Di Grado


 
Nave di Teseo, 249 pp.

 

I bambini di ferro sono gli issendai, i desideranti considerati impuri nella mitologia buddhista,ragazzini cresciuti in un esperimento di Accudimento Artificiale. Nel futuro, il Giappone tenterà una via scientifica alla creazione di genitori perfetti ma un virus contamina i robot e qualcosa va storto. Oggi si stanno portando avanti sperimentazioni del genere costruendo dei badanti bionici per anziani, per ovviare al problema dell'invecchiamento della popolazione nipponica e già il “dio dei manga” Osamu Tezukasi era interrogato sul risvolto umano della robotica con la sua opera più nota “Astro boy” e tale riflessione proseguiva in numerosi altri fumetti., come anche il tema della meccanica applicata all'uomo. Yuki Yoshida risente della falla del sistema e non riesce a provare sentimenti come qualsiasi altra persona ma anche la coordinatrice, Sada, è fredda, incapace di provare del vero affetto.

 La nuova bambina portata all'istituto Gokuraku, Sumiko – la bimba dell'angolo  - potrebbe essere definita tecnicamente “autistica”: nata in una famiglia probabilmente disfunzionale, con genitori poco presenti e un fratello distante, è silenziosa, senza reazione emotiva se non qualche rara parola. Si è chiusa in sé per proteggersi come Kohina Ichimatsu, la protagonista di Gugure! Kokkuri-san, che si crede una bambola vivente.

Viola di Grado ha creato uno spazio asettico, futuribile e contrastante con la Kyotô tradizionale cui siamo abituati a pensare. L'istituto è un luogo di solitudini, diametralmente opposto al Hoshi no Ko, il collegio degli anni Settanta che è al centro di “Sunny” di Taiyô Matsumoto “Bambini di ferro” contiene tante inesattezze e ingenuità che vanno lette con un po' di senso critico per evitare di incappare nell'errore di prendere per oro colto le parole che invece, evidentemente, sono una cesellatura della lingua che richiama lo stile di Isabella Santacroce ma senza i suoi eccessi. Non è un saggio, ma mostra un correlazione tra schematicità rigida e religione. Gli inserti descrivono un Buddha – Siddharta – umano e sofferente che però possiamo paragonare alle madri sintetiche con i loro insegnamenti indotti mentre l'amore materno diventa quasi come una droga che i disperati cercano nei vicoli, nei locali e sotto i ponti.

mercoledì 7 settembre 2016

UNA STORIA PER L'ESSERE TEMPO


Ruth è una scrittrice in crisi di creatività. Un giorno trova un diario e altri effetti personali avvolti in un sacchetto sulla spiaggia della sua piccola isola di Whaletown, in Canada: sembrano resti portati dallo tsunami che ha investito il Giappone nel 2011. Il diario, celato dietro una copertina che dice “À la recherche du temps perdu”, appartiene a Nao, una ragazzina giapponese cresciuta in California (e che quindi scrive in inglese). Ruth si appassiona alla lettura tanto da dimenticare il memoriale che dovrebbe finire. Ecco il legame tra due personaggi apparentemente slegati: iniziando a leggere, Ruth fa suoi i personaggi e si può dire che ne crei la vicenda, in una correlazione quantistica. È Oliver, il marito di Ruth, a mostrarci il percorso intrapreso dalla moglie, ossia il meccanismo di meta-racconto che influisce sui fatti narrati esattamente come lui, con il suo lavoro di coltura artistica, modifica il paesaggio per riportarlo a un grado zero; Come per il paesaggista delle Canarie César Manrique, il vero momento topico, secondo lui, arriva quando le persone interagiscono pienamente con la sua opera senza che ci sia in essa qualcosa di artificioso. Allo stesso modo ci si pone il problema dell’essere nella Storia mondiale – presente passata e futura – e nella micro-narrazione, esattamente come avveniva in Heidegger per il suo “Essere e Tempo”. Qui il romanzo si fa complesso e trova spazio per parlare della Guerra e di Fukushima ponendo i due eventi su un piano tanto reale quanto onirico, influenzato da passaggi che spezzano il patto con il lettore, che si ritrova a credere nell’interazione onirica con un corvo, operazione che ricorda molto Murakami.
 

Ozeki, dopo due libri sull’ecologia e la scelta di vita vegetariana, sfrutta al meglio la sua origine di americana “con il trattino” e imbastisce un romanzo complesso, ricco di riferimenti e scritto in una pluralità di stili, che mette in luce, tra l’altro, l’intolleranza del Giappone contemporaneo.
 

UNA STORIA PER L'ESSERE TEMPO


Ruth è una scrittrice in crisi di creatività. Un giorno trova un diario e altri effetti personali avvolti in un sacchetto sulla spiaggia della sua piccola isola di Whaletown, in Canada: sembrano resti portati dallo tsunami che ha investito il Giappone nel 2011. Il diario, celato dietro una copertina che dice “À la recherche du temps perdu”, appartiene a Nao, una ragazzina giapponese cresciuta in California (e che quindi scrive in inglese). Ruth si appassiona alla lettura tanto da dimenticare il memoriale che dovrebbe finire. Ecco il legame tra due personaggi apparentemente slegati: iniziando a leggere, Ruth fa suoi i personaggi e si può dire che ne crei la vicenda, in una correlazione quantistica. È Oliver, il marito di Ruth, a mostrarci il percorso intrapreso dalla moglie, ossia il meccanismo di meta-racconto che influisce sui fatti narrati esattamente come lui, con il suo lavoro di coltura artistica, modifica il paesaggio per riportarlo a un grado zero; Come per il paesaggista delle Canarie César Manrique il vero momento topico, secondo lui, arriva quando le persone interagiscono pienamente con la sua opera senza che ci sia in essa qualcosa di artificioso. Allo stesso modo ci si pone il problema dell’essere nella Storia mondiale – presente passata e futura – e nella micro-narrazione, esattamente come avveniva in Heidegger per il suo “Essere e Tempo”. Qui il romanzo si fa complesso e trova spazio per parlare della Guerra e di Fukushima ponendo i due eventi su un piano tanto reale quanto onirico, influenzato da passaggi che spezzano il patto con il lettore, che si ritrova a credere nell’interazione onirica con un corvo, operazione che ricorda molto Murakami.
 

Ozeki, dopo due libri sull’ecologia e la scelta di vita vegetariana, sfrutta al meglio la sua origine di americana “con il trattino” e imbastisce un romanzo complesso, ricco di riferimenti e scritto in una pluralità di stili, che mette in luce, tra l’altro, l’intolleranza del Giappone contemporaneo.
 

mercoledì 24 agosto 2016

ELEGIA IN ROSSO Seiichi Hayashi


 
 

 

Ichirô lavora nel cinema d’animazione ma non è soddisfatto. Sachiko, la sua ragazza, è coinvolta nei movimenti di protesta e soffre la discriminazione di una società maschilista. “Elegia in Rosso” è la storia di due rivoluzionari mancati. È un finissimo romanzo disegnato che racconta il disagio di una generazione, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta e il dissolversi dei sogni che questo momento comporta. Uscito a puntate tra il 1970 e il 1971, al termine di un periodo di grandi cambiamenti sociali e politici che investirono tutto il mondo, s’ispira alle controculture giovanili e alla nouvelle vague francese con un disegno essenziale e netto, alla base del fumetto adulto giapponese che dà il massimo nelle tavole grandi d’inizio capitolo. A volte il tratto di Seiichi Hayashi, uno dei capostipiti dell’avanguardia del manga, è fin troppo semplice e la trama ne risente diventando scarna, fino quasi a perdere elementi essenziali. Rimane uno stile sobrio, veloce, tagliato con un gusto cinematografico intriso di lirismo che, nella più elaborata versione a colori, ricorda la morbidezza delle stampe ukiyo-e e i disegni di Yumeji Takahisa. Se si cercasse un paragone contemporaneo, forse la vicenda potrebbe richiamare “Solanin” di Inio Asano per l’attenzione con cui si sviluppa il rapporto tra due ragazzi alle soglie della maturità; mentre il gioco di bianco e nero, che accentua soprattutto i vuoti attraverso l’annullamento degli sfondi, potrebbe essere il punto di partenza di un nuovo linguaggio espressivo forte e al contempo minimale che ha generato da un lato le immagini drammatiche del geki-ga e dall’altro le tipiche linee spigolose del josei per donne.  D’altronde anche i personaggi perdono quasi del tutto la caratterizzazione in favore di un contesto alienante: sono giovani moderni che risucchiati dalla città. Lo stesso avviene in molti romanzi di Haruki Murakami e anche nel bellissimo “Bokutte Nani” di Masahiro Mita, in cui la domanda principale è proprio quella del titolo che letteralmente significa “Cosa sono io?”.

sabato 23 luglio 2016

SE STASERA SIAMO QUI Cathrine Dunne



Maggie, Georgie, Claire e Nora: quattro donne unite dall’amicizia e da una vita che in parte è sempre stata condivisa, ma ci sono tanti segreti tra loro, tante cose irrisolte, come se la comunicazione fosse solo un esercizio superficiale. Il primo riferimento possibile è quindi in un certo senso obliquo e ci porta a Wisteria Lane, tra le casalinghe disperate di una nota serie televisiva americana. Il gruppo è strutturato come una curva di Gauss, Nora resta ai margini come punto più distante e “basso”, considerata noiosa e soprannominata “il Tafano”; Claire è “in alto”, troppo bella per le altre. Nel mezzo, Maggie e Georgie sono il prototipo della coppia indivisibile, tanto che ci si aspetterebbe quasi un rapporto saffico, che invece è espresso solo come puro affetto. Nel recensire “Se stasera siamo qui” di Cathrine Dunne vengono in mente due canzoni diversissime tra loro ma molto calzanti nel contesto. La prima è la sigla italiana del cartone animato di “Piccole Donne”; i primi versi dicono: “Quattro amiche, quattro stili, quattro animi gentili, quattro tipe in gamba –sì – come voi”. In realtà non ho trovato una buona caratterizzazione delle protagoniste, come se fossero tutte parte della declinazione di un modello unico, e gli animi non sono per niente “gentili” ma sempre macchiati di egoismo, come se non esistesse una razionalità a fare da barriera all’istinto. Paradossalmente, l’unica un po’ eccentrica è Nora – la più “normale”, che comunque raggiunge una personale soddisfazione nella casa e nella famiglia. Lei, che pareva la più piatta, è quella che mostra più sfaccettature e che può dire di aver incontrato la stabilità e l’affidabilità sentimentale. Le altre sono vittime di continue delusioni, mini-fallimenti ed esplosioni intime che sconvolgono le loro vite con continui colpi di scena e un finale che non si penserebbe possibile. Seguendo la letteratura al femminile della nuova Irlanda, sembra che questa sete d’amore – intesa come passione romantica – sia una costante nel discorso sulla donna contemporanea, in tutte le fasi della vita e soprattutto durante la mezza età. Veniamo alla seconda canzone, evocata dal titolo originale del libro: “At time like this”. Questo è il ritornello di “Times like these” dei Foo Fighters: “it’s times like these you learn to live again /it’s times like these you give and give again /it’s times like these you learn to love again/ it’s times like these time and time again” Una buona sintesi del nostro romanzo.

Nel complesso, lo stile è scorrevole adottando la forma di narrazione corale che affida ogni capitolo a una delle quattro ragazze. Nonostante questo espediente, il punto di vista risulta troppo univoco perché i background di partenza sono simili e in ogni voce riecheggia la convinzione femminista dell’autrice. Qui come in altre opere del genere, la conclusione è sempre la stessa: la donna è il “sesso debole” che non può sopravvivere lontano dall’uomo, o piuttosto dall’idealizzazione della relazione a due.

venerdì 8 luglio 2016

RAGAZZE DI CAMPAGNA Edna O'Brien


 
 
Scritto in pochi mesi, “Ragazze di Campagna” è il romanzo d’esordio di Edna O’ Brien e costituisce il primo capitolo di una trilogia dedicata alla crescita sentimentale della donna nella società irlandese. L’autrice scrive che nella sua casa – una fattoria nella Contea di Clare – c’erano solo libri di preghiera e annuari sulle corse dei cavalli.  Educata dalle monache fino a sedici anni, il libro trae spunto dall’esperienza autobiografica per mettere in scena la vita amorosa e la voglia di libertà di due ragazze all’inizio degli anni Cinquanta e fu accolto con grande clamore e scandalo in patria. Questo fa capire il clima e la mentalità dell’epoca: le restrizioni religiose e puritane accanto alla piaga dell’alcolismo che funestava molte famiglie. Caithleen e Baba sono giovani e hanno fame di vita, così la reclusione del convento va loro stretta ed elaborano un piano per farsi espellere: scrivere sconcezze sul retro di un santino. Solo questo basterebbe a sconvolgere i ben pensanti, ma si aggiunge anche la storia di Kate con un uomo sposato e più vecchio di lei. In tutto questo però la moralità rimane – è Brigitte la più sfrontata – e, almeno da parte sua sembra che questa sia il primo passo verso il vero amore. Anche se non c’è ancora la maturità di un rapporto adulto ma piuttosto la purezza dell’ideale che naufraga tragicamente lasciando una triste ferita. Alcuni critici paragonano la O’Brien a Colette e alla sua “Claudine”, ma Edna smentisce ogni similitudine perché, dice, la scrittrice francese era più “felice”. Nella descrizione cupa e severa del collegio si trova forse un parallelo con “Terra di Spezie” dell’omonima Kate O’ Brien che narra la storia di una ragazzina alto-borghese crescuita dalle suore. Si potrebbe arrivare a vedere quest’opera come un tutt’uno con “Ragazze di Campagna” e “Le ceneri di Angela” di Frank McCourt perché l’ambientazione geografica è pressoché la stessa e varia solo il ceto sociale dei protagonisti. In nessuno di questi volumi ci sono accenni espliciti alla violenza, ma risulta chiaro che una visione della fede tanto ristretta sia comunque coercitiva e condizionante,  in modo più soft rispetto al film  “La Malaeducatión” di Almodóvar ma quanto basta a creare un solco che dà forma la comunità.
 

giovedì 9 giugno 2016

L'ATTACCO DEI GIGANTI - LOST GIRLS


Hiroshi Seko /Hajime Isayama. Illustrazioni: Ayamu Kotake

Panini Comics (Planet Manga), 287 pp., 6.90 euro

 

In attesa di leggere “Lost Girls” nell’adattamento a fumetti di Ryosuke Fuji, l’universo di “L’Attacco dei giganti” si arricchisce di un nuovo capitolo con questo libro che raccoglie tre storie inedite che hanno per protagoniste due ragazze taciturne e fuori dal comune: Mikasa e Annie. Siamo in un mondo crudele, dove vivere significa sacrificare gli altri e combattere continuamente per sopravvivere. Mikasa e Annie lo hanno capito a loro spese da quando si sono arruolate nel Corpo d’Addestramento dell’Esercito. L’umanità è prigioniera dietro alte mura che difendono le città dagli assalti di terribili giganti. Non è ben chiara la loro origine e non si sa quasi nulla sulla loro conformazione biologica, ma si è capito che alcuni individui sono in grado di trasformarsi in titani. Annie è uno di questi soggetti, anche se nell’episodio intitolato “Wall Sina, Goodbye” non è questo l’aspetto messo in evidenza. Qui Annie è alla ricerca di una ragazza scomparsa, Carly che, nei tratti e nell’atteggiamento ricorda la “Manon, ballerina” di Antoine de Saint-Éxupery. L’autore, Hiroshi Seko, si concentra su un sottobosco misterioso che si muove nei suburbi ma che sembra avere le sue vere propaggini alla luce del sole. L’opera non è particolarmente rilevante dal punto di vista letterario ma approfondisce la psicologia dei personaggi più amati della serie manga di Hajime Isayama e ne sottolinea gli aspetti etici.il primo racconto “Lost in the cruel world” si svolge in un ambiente bucolico e, con la costruzione di una macchina volante, ha la stessa visione della libertà che pervade il lavoro del regista Hayao Miyazaki. Il light novel è completato dalle illustrazioni di Ayamu Kotake, che da una diversa interpretazione delle figure che già conoscevamo. Le immagini, che nell’originale hanno un approccio cinetico, acquisiscono linee più morbide e quasi infantili.

martedì 24 maggio 2016

I GUARDIANI DEL LOUVRE


Rizzoli, 19 €
Taniguchi ci regala un inno d’amore per l’arte, uno splendido volume a colori, un pellegrinaggio tra le sale del Louvre. La trama è simile a quella di “Memorie di Iris” di Keiko Ichiguchi. Il protagonista si ritrova in una realtà parallela, catapultato a stretto contatto con lo spirito delle opere che contempla, incontrando grandi pittori e intellettuali in un viaggio senza tempo. Chû Asai e Söseki Natsume ci fanno ritrovare il legame tra pittura occidentale e nipponica, mentre il riferimento a Vincent Van Gogh ci porta fuori, nella stupenda cornice naturale di Auvers-sur-Oise rivelando una fascinazione per l’ambiente, anche se qui resta in fase embrionale, senza arirvare agli estremi poetici di “L’olmo “ o “L’Uomo che cammina”. Anche con Kurosawa eravamo entrati un quadro, ma in quel caso il dramma era palpabile ed evidente. Nonostante le ottime premesse “I Guardiani del Louvre” non arriva alle vette di "Pepita" – insuperabile art book di Inoue su Antoni Gaudí – o “Gokusai” manga in cui compaiono diversi maestri tra cui spicca una totale identificazione tra il  personaggio principale e il grande olandese. Il disegno non è abbastanza accurato per rendere il tratto originale ei paesaggi e anche la storia è eccessivamente confusa e avrebbe meritato uno sviluppo più  lungo e articolato. Si nota l’attenzione dell’autore per l’uso dello spazio, per la divisione delle tavole che rende bene nel grande formato e per la gastronomia esplorata con la curiosità di un gourmet; Non si può certo bocciare del tutto un lavoro del sensei che ha trionfato ad Angoulême ma non lo si può consigliare come primo approccio a un corpus complesso.

venerdì 6 maggio 2016

FRANTZ E IL GOLEM




Orecchio Acerbo, 48 pp., 16.50€

“Frantz e il Golem” ha i suoi riferimenti in una storia classica delle leggende ebraiche, quella del gigante d’argilla senz’anima che fu creato nel ghetto di Praga per difendere la comunità dalle persecuzioni, ma ci sono degli interessanti echi visivi di questa figura nel panorama letterario e grafico a livello mondiale. Innanzitutto pensiamo a Frankestein, o meglio alla Creatura di Mary Shelley che molto aveva dell’umano ma non il dono della parola. Il Golem nasce dalla scrittura ma non può essere considerato completo perché gli manca la bocca e quindi il linguaggio. Spostandoci nel tempo e nello spazio troviamo diversi esempi di questa meccanizzazione nel fumetto giapponese, che dal concetto di esoscheletro ha generato un intero filone narrativo in ambito fantasy e fantascientifico: dal robot spirito di “Shaman King” fino a Litchi costruito dai ragazzi terribili del Club della Luce. è la purezza di una ragazza a fermare la furia distruttrice di un pupazzo spaventoso che, non avendo la Ragione, non possiede nemmeno il concetto di Bellezza ma ne può sentire gli effetti e i riverberi.  È qualcosa di opposto rispetto a un’altra coppia letteraria di corpi vuoti, che ancora unisce Europa e Sol Levante. Il cavaliere inesistente Agilulfo e Al, l’armatura di “FullMetal Alchemist” sono puro idealismo, ovvero esseri che tentano di esistere nonostante la loro immaterialità. Qui è il disegno di Maurizio Quarello a rendere le atmosfere buie e impalpabili della capitale ceca, in una risoluzione a temporale che ha tutta la brumosità del “c’era una volta” e che dà una profondità diversa, anche illustrativa, grazie a una serie di tavole che, pur essendo puntualissime, diventano anche il contrappunto di una serie più ampia di considerazioni aneddotiche ampliando il qui e ora in una serie di piani interpretativi diversi. Resta aperta una domanda: chi è Frantz? Il Golem non è solo una cosa plasmata dalle mani del Rabbi, ma è anche e soprattutto qualcosa che vive dentro di noi, il segreto stesso dell’alterità che si risolve nel dialogo.   

martedì 19 aprile 2016

BRANCACCIO Stassi / Di Gregorio


L’edizione aggiornata di“Brancaccio” fa parte del progetto “Per questo mi chiamo Giovanni” che vuole portare il tema della mafia nelle scuole per sollecitare e sensibilizzare i ragazzi in maniera immediata ma diversa rispetto al recente film di PIF. È una storia d’illegalità diffusa che non racconta solo un quartiere, con la sua gestualità e i suoi linguaggi, ma anche una realtà più vasta, quella che rivendica il bisogno di cambiamento. Eppure Claudio Stassi e Giovanni Di Gregorio hanno lasciato la Sicilia per descriverne la vita quotidiana, le strade, le indifferenze, i pericoli – con tavole scure e acquerellate che però ricordano i mercati di Guttuso – per mostrare alle nuove generazioni qual era stato il messaggio di uomini coraggiosi come Don Pino Puglisi e Peppino Impastato, per riportare la tensione indifferente che si respirava nel periodo delle stragi. C’è ancora moltissimo da fare, tante finestre da aprire prima che il muro sia davvero incrinato perché il punto lacerante è la normalità che la contravvenzione alle regole occupa oggi, la mancanza di fiducia nel sistema / istituzione che abbandona più che sorreggere. Nel libro una speranza c’è, ma il piccolo Nino e il suo sogno di andare lontano si perdono perché si è costretti ad attaccare. Partirà un altro giovane, e il bianco e nero lascerà spazio al colore per marcare una certa distanza dalla rabbia di dieci anni fa e segnare una disillusione che diventa nostalgia dialettale con una tecnica piena pastosa e buia che ricorda la scuola di Gipi e non il morbido flusso della memoria di autori come Cyril Pedrosa.



martedì 29 marzo 2016

BRUNO CATTANI


“Da una fotografia non ci si deve affatto aspettare più di quanto essa offra. Una fine riproduzione dell'accadere esteriore assomiglia alle impronte che ci hanno lasciato certe bestie rare nella pietra. Esse offrono certamente del materiale alla vista – il modo però in cui la vita dei grandi animali si svolse nei suoi movimenti segreti è tutto da presagire e richiede della fantasia” scriveva il filosofo tedesco Ernst Jünger. La fotografia altro non è se non una traccia che fissa un luogo nel tempo ma lascia nascosta la sua vera natura, consegnandocene un segmento separato dal tutto e sottratto allo scorrere degli eventi. Nell’immagine resta quel qualcosa di indefinito che si delinea solo – e in maniera sempre effimera – attraverso la memoria. è dunque attraverso lo sguardo consapevole dello spettatore che un particolare assume importanza diventando parte rilevante di un tutto che è contemporaneamente espressione del qui e ora e vestigia del passato. Le due dimensioni sono vicinissime, si sfiorano, si scompongono e ricompongono grazie all’accento dubitativo dell’approccio critico dato dal taglio inconsueto della prospettiva, le distanze si allungano o si accorciano su sfondi di desolazione padana che si allargano verso l’alto, dando un nuovo contesto ai giocattoli, alle giostre e ai cavallini, ai parchi e alle camere d’albergo che conservano il passaggio umano solo parzialmente, restituendoci un’intimità pienamente soggettiva e onirica Con un sur-realismo metafisico che rievoca Palumbo, s vola come in un gioco di cavalieri e ai cade come un Cristo deposto, sempre inseguendo le domande che fanno da ossatura alla formazione individuale. Cattani ripesca frammenti nella scatola dei ricordi e li pone in sequenza, raccontando l’infanzia con toni nostalgici ma anche sognanti, concreti eppure ancora giocosi: c’è spazio per l’utopia che, pur contraddistinguendo i giochi dei bambini, non abbandona la visione adulta, più disincantata e malinconica. 



Fino al 3 aprile in Sala Liguria, Palazzo Ducale 
 
 

giovedì 18 febbraio 2016

I GILLESPIE Jane Harris







"I Gillespie" riprende lo stile vittoriano di Collins Wilkie e, a tratti ne ricalca l a brillantezza nella composizione dei particolari che contribuiscono a creare un quadro complessivo con diversi punti di vista.  Tuttavia la scrittura risulta a volte piatta e non risulta coinvolte, anche se ha una buona ripresa nella seconda parte, dedicata alla controversia. Come nei classici del genere legal, l’ultima parola spetta ai giurati / lettori ovvero resta il dubbio sulla figura della protagonista, Harriet Baxter. Il suo incontro con Annie e Ned Gillespie è fatale: la famiglia diventa un suo rifugio in un momento difficile della sua vita e il rapporto d’amicizia si fa stretto, quasi al limite della morbosità che viene poi adombrata dalla tragedia. Tutti i personaggi hanno una relazione di esclusività possessiva gli uni con gli altri. Il romanzo di Jane Harris è prima di tutto un saggio sulla vita della donna alla fine dell’Ottocento in Inghilterra e in Scozia – con la contrapposizione tra un passato  fin de siécle e un presente datato 1933 – nonché un’attenta analisi del tessuto socio-culturale di Glasgow nel periodo dell’Esposizione, con il merito di riscoprire una congrega di artisti poco conosciuti ma pregevolissimi. È quindi un peccato che la scelta dell’immagine di copertina sia ricaduta su un pittore americano quando sarebbe stato meglio utilizzare ad esempio un quadro di Edward Atkinson Hornel. I riferimenti storici sono accurati e ben documentati e costituiscono, insieme alla descrizione minuziosa dei paesaggi urbani e semi-rurali scozzesi – specialità di Harris – il punto di forza della vicenda.