lunedì 16 novembre 2015

SCENE DA UNA BATTAGLIA SOTTERRANEA Roberto Fogwill



Edizioni SUR, 167 pp, 15 €

Partiamo da una considerazione dello stesso Fogwill: “Scene da una battaglia sotterranea” non è un libro contro la guerra ma contro un modo stupido di concepire la guerra, perché non si può scrivere contro la pioggia o contro la neve. Non c’è nessuna connotazione ideologica in questo libro corale, ma piuttosto la più cocente e cruda umanità. Alcuni lo hanno paragonato per efficacia a “Il sergente nella neve” di Rigoni Stern ed è effettivamente così. Non è l’esperienza dei patrioti, non c’è nessuna connotazione ideologica. Nel 1982 l’Argentina combatteva una guerra assurda per il dominio sulle Malvine /Faulkland, isole fredde adatte solo ai pinguini e i cui pochi abitanti umani non sono né argentini né inglesi ma un gruppo quasi autonomo, isolato e incerto, vicino al mito se non altro per il miraggio di una futura pace indipendente dai maneggi politici delle grandi potenze. In questo scenario desolato si svolge l’avventura degli “armadilli”, un distaccamento di soldati che vive sottoterra e che, nel buio dei cunicoli, pensa alla propria sopravvivenza scambiando merce con tutti, anche con il nemico, dato che a un certo punto del conflitto, quando la fine sembra ormai prossima nel bene o nel male, le carte si confondono e alcuni britannici si uniscono alle fila di questi fantasmi che fantasmi non sono. Molti di loro sfiorano la leggenda apparendo dal nulla in superficie, ma è soprattutto la loro umanità a essere in gioco. Nella descrizione di una collettivizzazione forzata di qualsiasi intimità, Fogwill non è mai retorico e la paura è al centro delle sue immagini potenti che, senza essere una vera raccolta documentaria, sono comunque la testimonianza non solo di un momento storico, ma anche del sentimento di un popolo che vede sfumare una bolla d’illusioni. La letteratura – trasformata in autore / personaggio – è una missione (o meglio una vocazione) deve assumersi il pesante onere di raccogliere questo sentire comune per giungere alla reale comprensione dei meccanismi interni della società.

mercoledì 19 agosto 2015

CRIMINALI DA STRAPAZZO


 
 
CRIMINALI DA STRAPAZZO  è un film del 2000 firmato Woody Allen. Niente di nuovo. Ray (Woody Allen) è un ladro che vuole continuare la sua “carriera” e progetta di rapinare una banca scavando un tunnel usando un negozio di biscotti come copertura ma la ricetta della moglie Frenchy (Tracey Ullman) ha un enorme successo e, mentre il colpo va a monte, la coppia diventa ricca con una produzione dolciaria in franchising.  Niente di nuovo (Non c’era qualcosa di simile addirittura con Totò?. Tutto si regge quindi sulla comicità del duo Allen /Ullman che in America è sinonimo di sicure risate – tanto da avergli fatto aggiudicare il National Sociaty of Critics Award. Il film è indubbiamente brillante, ricco di sarcasmo. Ray e Frenchy sono i classici parvenue, nuovi borghesi con una casa troppo kitsch e vestiti troppo vistosi. Frenchy su accorge del gap culturale e si affida al mercante d’arte e mecenate spiantato in cerca di denaro  David (Hugh Grant – che come al solito è più bello che espressivo!) per affinare il vocabolario e farsi dare qualche lezione d’arte, musica, teatro, letteratura e persino gastronomia … per poi completare la formazione in Europa, ma tutto precipita quando lei scopre di essere stata truffata. I contabili hanno lasciato un mare di debiti e la Sunset Interprise deve dichiarare bancarotta.

Ray intanto ha tentato un nuovo colpo con la complicità della cugina di Frances, May (Elaine May – altra spalla comica d’eccezione, esilarante nel ruolo della svampita).

Una piccola nota sull’arte all’interno del film: tutti i riferimenti citati sono corretti tranne quello a Damon Dexter una presunta scoperta di David Grant. Ci si potrebbe divertire a scrivere un commento sui quadri astratti di questo autore dalle pennellate decise e materiche che, con una scelta cromatica limitata, avvicina il pubblico all’essenza della natura trasmettendone al contempo l’urgenza fenomenologica.

Altra parentesi interessante riguarda la traduzione del titolo originale, SMALL-TIME CROCKS con “Criminali da Strapazzo” quando forse la versione più letterale sarebbe stata qualcosa come “Le bugie hanno le gambe corte”, anche se sarebbe stata di minor impatto. In ogni caso si perde l'assonanza tra "crocks" (bugie, sciocchezze) e "cookies" (biscotti)

Pur conservando l’osservazione della società statunitense tipica dei film di Allen, questa pellicola non ha pretese di spessore toccando invece buoni livelli di comicità.

domenica 16 agosto 2015

LAUREL CANYON



 
LAUREL CANYON di Lisa Cholodenko non è un film memorabile. Alex e Sam arrivano alla casa della madre, produttrice discografica, e si trovano a dover convivere con lei e con la band che sta registrando un disco. Mentre Alex tenta di scrivere la propria tesi di genetica (sulla drosofila), Sam inizia il tirocinio da psichiatra in un ospedale e dà prova di umanità nel trattamento dei casi, ascoltando i pazienti e non limitandosi a curarli con la terapia farmacologica.

Alex però è sempre più coinvolta in una storia a tre con Ian e la madre di Sam mentre lui comincia a provare attrazione per Sarah, una collega giunta da Israele per uno scambio.

Ci sono dunque alcubi spunti che però non vengono sfruttati a dovere perdendosi nel pastiche vacanziero. Il primo punto, quello più evidente nelle parole stesse dei personaggi è la dicotomia STIMOLANTE /NON STIMOLANTE: poco padrona della lingua, Sarah definisce il lavoro scientifico di Alex “non stimolante” come sinonimo di accademico e noioso; al contrario la vita sregolata dei musicisti e di Jane pare stimolante per la ragazza che non ha mai imparato a lasciarsi andare (ma il lasciarsi andare è qualcosa che s’impara?). Il discrimine è tra normalità e sregolatezza, senso di realtà e voglia di fuga. Laurel Canyon è quindi un luogo fisico ma soprattutto una parentesi nella quale tutto può cambiare. Questo si riflette anche su Sam, attraverso il suo lavoro e il suo rapporto con l’Altra che viene in parte sublimato da uno slittamento platonico, parlato e poco agito.

L’aspetto antropologico dell’incontro tra la cultura ebraica e quella statunitense resta solo implicito e non ha seguito, tanto che si riduce a un dettaglio sullo sfondo.

Gli attori non sono da ricordare se non la grande Frances Mc Dormand (Jane) che, col suo tocco, rende degna anche la storia più insulsa. Per il resto il cast non annovera nomi di rilievo, se non si considerano i blockbusteroni degli ultimi anni. Christian Bale (Sam) è espressivo come una melanzana e anche Benkinsale (Alex), reduce dai vari “Underworld” è solo di poco sopra la sufficienza.

Il film si propone da subito come una riedizione di “Almost Famous” e, se non centra assolutamente l’obiettivo, ha comunque una buona colonna sonora alternative pop, in cui spiccano Mercury Rev e T-Rex oltre ad alcuni brani originali composti e cantati da Alessandro Nuvola(Ian).

martedì 11 agosto 2015

MOONRISE KINGDOM


MOONRISE KINGDOM è un’altra piccola perla di Wes Anderson, impreziosita dalla co-produzione di Roman Coppola e da un grande cast. Il luogo è l’isola immaginaria di New Penzence, l’anno è il 1965. Sam Shakusky è uno scout di dodici anni che decide di dimettersi per tentare una rocambolesca fuga d’amore con la sua amica di penna Suzy Bishop, ragazzina disadattata che nella recita parrocchiale su Noè ha il ruolo del corvo. Il ragazzo è matto o solo incompreso? Dopo la fuga, compare sulla scena la terribile Servizi Sociali, caratterizzata come una strega e le cose si complicano perché nonostante fosse impopolare, Sam era comunque parte della truppa dei Khaki Scout e come tale va aiutato nel momento del bisogno quindi tutti i suoi compagni si uniscono per salvarlo da un possibile elettroshock e dall’affidamento a un “rifugio per giovani” che è l’equivalente di un riformatorio.

Il film fa riflettere su diversi grandi temi della sociologia. Innanzitutto ruolo della famiglia nell’educazione dei figli. Infatti, Sam potrebbe avere dei problemi relazionali perché i suoi genitori sono morti e da diversi mesi vive in una casa che non lo accoglie davvero per quello che è e da dove viene scacciato non appena si manifestano delle difficoltà. Come Ed e Al in FullMetal Alchemist, il bambino non ha più un posto in cui tornare e deve contare solo sulle proprie capacità di Lupetto. Tale certificazione e l’entrata in scena di Servizi Sociali, dello Sceriffo Sharp (Bruce Willis) e del Capo Scout Word (Edward Norton) mostra l’importanza e le carenze dell’autorità esterna nella costruzione della personalità.  Suzy ha una famiglia apparentemente normale (Bill Murray e Frances McDormand)– anche se c’è dell’ironia nella caricatura della “famiglia numerosa” – ch vive al capo estremo dell’isola e dunque in un posto molto difficile da raggiungere e nel quale i punti di riferimento sono per forza di cose interni. Per questo motivo la fuga verso una nuova avventura e verso gli spazi aperti si prospetta come unica alternativa all’autolesione – che è la forma estrema di autoreferenzialità in un circolo chiuso (vizioso) e non solo un capriccio della moda emo del momento. Un appunto sui cognomi: Sharp, il poliziotto dell’isola che indaga sulla sparizione dei due e sull’aggressione al capo della fazione scout che, embedded rispetto al potere dominante degli adulti, segue le tracce dei due fuggiaschi e li considera nemici; Word come “parola” fa pensare al roulo fondamentale che essa ha nella formazione; Bishop “Vescovo” rimanda direttamente all’autorità

Lo spazio è definito dalla cartografia di una mappa ipotetica come in “Lo Straordinario viaggio di T. S. Spivet” in cui è proprio il percorre il territorio a strutturare la strada di volta in volta, ma qui si aggiunge la leggenda dell’antico sentiero della migrazione del popolo indiano dei Chickchaw che legittima la coscienza collettiva quanto il rapporto con l’ambiente specifico si lega all’individuo. Così gli espedienti narrativi si rifanno all’antropologia e all’arte, da un lato il diario di Word; dall’altro l’uso di quadri e vetrate come scenari in cui inserire i personaggi. 

 
 


lunedì 10 agosto 2015

RUTH & ALEX



 
 
RUTH E ALEX è una splendida commedia diretta da Richard Loncraine. Alex (Morgan Freeman) è un artista di settant’anni. Passeggia nel suo quartiere e ne gusta i piccoli riti, i luoghi, le persone. Tuttavia qualcosa sta cambiando: la civiltà del nuovo millennio porta supermercati biologici e Apple Store, la gestione di una galleria d’arte equivale a quella di un’impresa con il curatore come amministratore e i protagonisti si ritrovano anziani. È sempre più difficile fare le scale e così i due decidono di vendere l’appartamento attraverso l’agenzia della nipote Lily che organizza una “visita libera” proprio nel giorno in cui un allarme terrorismo blocca il ponte che porta a quella zona della città; ma nulla ferma il mercato – nonostante la Crisi – e la casa si riempie di gente. Alcuni sono solo curiosi, altri fanno un’offerta scatenando un balletto di cifre senza considerare il valore sentimentale di ciascuna stanza. I ricordi di Alex tornano a galla mentre guarda i propri quadri e la vista dalla finestra del suo studio. “Forse io e Ruth abbiamo avuto tutte le viste della nostra vita. Forse le viste sono per i giovani che hanno qualcosa da guardare.” dice lui, ma il vissuto entra in ogni momento arricchendolo di significato anche nel presente. Quarant’anni prima aveva dipinto un nudo usando Ruth (Diane Keaton) come modella. Per il tratto e la scelta cromatica, è un’opera in bilico tra Espressionismo e Realismo mentre i paesaggi hanno qualcosa del Precisionismo industriale americano di Earle, influenzate dall’insieme armonico di palazzi e ciminiere che si nota oltre il davanzale. Poi si dedicherà a un ultimo ritratto, quello della moglie di adesso e gli edifici saranno lo sfondo per il suo personale progetto di “urban farming” con le paintine di pomodoro i cui frutti costano circa nove dollari l’uno! Mentre la loro cagnolina si trova all’ospedale veterinario – condividendo il destino dei padroni –  anche la coppia partecipa a una visita, per cercare un posto nuovo che non sia a milioni di miglia dal loro mondo e prendere in mano la situazione – il che significherà restare ancora per un po’ nella vecchia casa, annullando le trattative. Variando gli scenari, si ripresentano gli stessi personaggi: la scrittrice e la bambina con la madre che prova camere da letto e soggiorni luminosi. La luce e la metropoli sono aspetti fondamentali del film perché attraverso gli occhi di Alex (e quelli di Ruth) il globale si riduce a locale dando vita a ciò che i sociologi hanno chiamato “glocale” fino all’estrema propaggine rappresentata dalla caccia all’uomo contro il sospetto terrorista musulmano. Dall’11 settembre, negli U.S.A. resta una paura connaturata del diverso che spinge a dipingere come mostri tutti coloro che appartengono a una differente comunità. Nella pellicola, questa frattura culturale è messa in parallelo con quella degli anni Settanta statunitensi, nei quale in molti stati i matrimoni misti erano illegali o erano guardati con diffidenza.  
 

 

giovedì 6 agosto 2015

INSIDE MAN di Spike Lee



INSIDE MAN di Spike Lee è un buon polizesco tirato, carico d’azione ma che risente un po’ (forse volutamente) dei cliché di genere, anche per via della fotografia con le luci virate ai toni freddi come in “C.S.I N.Y.”. Una rapina in banca: nel come c’è l’intoppo; e forse anche anche nel cosa dato che non è ben chiaro fino alla fine. Si parla di soldi ovviamente ma solo per inciso perché il vero obiettivo pare essere un altro: un fascicolo che coinvolge il fondatore della banca in loschi traffici con i naziati per lucrare sui diamanti delle famiglie ebree. Un peccato lontano ma, una volta venduta l’anima è impossibilw sfuggire ai propri peccati. Esattamente come avveniva in “Dolls” di Takeshi Kitano o nel Padrino  -  citato da Lee .
Il meccanismo interessante, che rende TUTTI SOSPETTATI,  è che i rapinatori fanno indossare agli ostaggi delle tute e delle maschere come le loro in modo da confondere le acque anche per lo spettetore, che poi ascolta le interviste dei singoli presenti e si fa un’idea insieme agli inquirenti. Il Deteective fraizer si ritrova a fare da nediatore (e Danzel Washington è un ottimo interprete di film di questo tipo) tra i criminali e le istituzioni mentre la società in toto sembra essere in discussione.Nel  2006, con i presupposti della crisi già chiari, il sistema finanziario appare corrotto fin dalle fondamenta e i cittadini non possono essere moralmente diversi dagli aggressori, che allora smettono di essere perseguibili. Un’ottima Jodie Foster nella parte dell’algida Miss White, che lavora per i poteri forti ossia l’amministratore delegato Arthur Case. Con un gioco di parole “Quando scorre il sangue è il momento in cui a New York qualcuno finisce in galera” e così, quando la storia sembra arrivare alla conclusione il “caso” (Case) è chiuso.  

martedì 4 agosto 2015

IO & ANNIE


 
 
“IO & ANNIE” è forse il film più famoso di Woody Allen. E a ragione.

La battuta è tutta affidata alla sagacia di un sottile umorismo ebreo che rispecchia la realtà della classe media newyorkese. C’è però la squisita variante del protagonista che esce da sé e trascina lo spettatore nel racconto.

Visto in retrospettiva, nel ciclo dedicato agli anni Settanta, il colore è particolarmente interessante se rapportato all’ambientazione e si dovrebbe quindi confrontare con quello di altre commedie del genere come ad esempio “Autumn in New York” con Richard Gere e Winona Ryder.

I passaggi narrativi sono trasversali, tagliando il tempo e lo spazio in due sezioni che potremmo definire “Prima di Annie” e “Dopo Annie”. Alvy Singer è un comico da night club che viene lasciato dalla fidanzata, Annie Hall, dopo una relazione di un anno. Ripensare alle fasi del loro amore è come ripercorrere in chiave psicanalitica un momento della vita, rivalutando anche il “prima” ossia il matrimonio con Allison, mentre un’altra prospettiva – lo schermo si divide a metà quando i due parlano contemporaneamente con i loro terapisti – consente di vedere le cose dal punto di vista che dovrebbe essere sarcasticamente femminile ma risulta in effetti umoristico come le gag di Migone con Claudio Bisio ai bei tempi di Zelig ( e il nome del programma è un chiaro omaggio ad Allen!)

I cognomi non possono essere casuali: Hall come ingresso in un mondo diverso, quello delle donne ma anche quello della cultura medio-borghese; Portchnik a idicare un’origine immigrata probabilmente dall’Europa dell’Est oltre a voler ricalcare un suono buffo come la città di Pokipisie nel distretto di New York serviva da mantra rilassante a John nella serie “Ally McBeal”; Singer non tanto e non solo come “cantante” – che è l’occupazione di lei e non di lui – quanto come tipico cognome che non lascia dubbi sull’origine ebrea del personaggio.

Ottima l’interpretazione di Diane Keaton, che dovrò seguire in Ruth e Alex per trovare una pietra di paragone, e che ha vinto un Golden Globe come miglior attrice sotto la regia da Oscar di Allen.
 
 

martedì 17 marzo 2015

IN ALTRE PAROLE Jhumpa Lahiri


Guanda, 148 pp., 14 €

Jhmpa Lahiri è una delle migliori voci del panorama statunitense contemporaneo ma in questa raccolta di riflessioni si presenta per la prima volta nella veste inedita di scrittrice in italiano. L’innamoramento e di avvicinamento alla nostra lingua è un pellegrinaggio alla scoperta di una terra vergine, in cui si distinguono stelle-guida sconosciute. Il processo la lascia con alcuni importanti numi tutelari (Pavese, Moravia, Quasimodo e Saba) ma senza gli strumenti del cesello letterario, consentendole di ritrovare il piacere primitivo di confrontarsi con le parole in maniera imperfetta e con un approccio quasi fisico alla sfida. Le metafore che legano lo sforzo pratico alla produzione narrativa sono molto frequenti. Basti pensare a “L’Arte di Correre” di Haruki Murakami in cui la disciplina della pagina è paragonata al podismo; e risalendo la scala dei riferimenti più alti ci s’imbatte in autori che si sono cimentati con il distacco dalla propria madrelingua. Da Conrad a Pessoa, che si rifugiava nel lido sicuro del portoghese per reinventare se stesso fino a Michela Marzano, che ha avuto bisogno della prospettiva esterna del francese per affrontare i suoi problemi personali e trovare risposte. Perché ogni struttura semantica crea una particolare dimensione e connessioni diverse attraverso le quali leggere la realtà. Nel triangolo che unisce Calcutta, New York e Roma, rimangono le da superare le difficili distanze dello stereotipo. In questi articoli incontriamo un’alterità spaesata ma tenace, fresca e piacevolissima che promette di crescere e di toccare sponde inaspettate.

mercoledì 4 marzo 2015

PROFESSIONE ANGELO CUSTODE Arto Paasilinna

Iperborea, 207 pp. € 15.50

L’ex insegnante di religione Sulo Auvinen muore lasciando una vita tutto sommato mediocre: è goffo e impacciato e da anni sopporta le sfuriate della moglie; ma trova la sua strada alla sede del Paradiso che è stata dislocata a Kerimäki, in Finlandia, e dove tutto è regolato come in un’azienda. Dopo un breve corso di formazione come angelo custode, gli viene assegnata la protezione di Aaro Korhonen – uno scapolo quarantenne che ha appena acquistato una caffetteria-libreria antiquaria nella capitale. Lo zelo educativo di Sulo si traduce in una serie di disastri di proporzioni quasi apocalittiche, quando il vecchio maestro si propone di trovare l’anima gemella del suo assistito, pilotando la mente delle persone che lo circondano. Le conseguenze di queste manipolazioni sono talmente catastrofiche (e tragicomiche) da indurre le alte sfere infernali a interessarsi a lui, complicando ulteriormente il quadro degli interventi ultraterreni. Ma quanto davvero influisce l’elemento sovrannaturale nella vita degli individui? Il ritmo è incalzante, ogni capitolo riserva una nuova sorpresa, ma non si tratta di un libro leggero: c’è anzi una patina opacizzante che, in alcuni momenti, inceppa un po’ la lettura. Tra carri funebri che si ribaltano e salme rubate; scenate di gelosia, incedi e naufragi, Arto Paasilinna torna a raccontare con ironia la bizzarra normalità dell’esistenza – umana e celeste – attraverso una carrellata di personaggi irresistibili, paesaggi e spunti letterari che sono sì legati al territorio e alla cultura finlandese, ma consentono di riflettere sulla spiritualità. 


mercoledì 4 febbraio 2015

SEMPLICEMENE GUTIÉRREZ Vicente Battista


Voland, 174 pp., 15 €

Chi è Gutiérrez? Ghost writer per una casa editrice, scrive romanzi su commissione celandosi dietro un reticolo di pseudonimi e vive un’esistenza ordinaria, regolata dalle scadenze settimanali, le passeggiate salutari e una dieta spartana. La sua personalità sembra annullarsi e al contempo moltiplicarsi in questo dedalo, mentre lui colleziona in un ripostiglio segreto i suoi libri e li rifodera, soltanto per consegnarli a una sorta di oblio.  Nulla si sa del suo passato, che affiorerà – forse – nel romanzo autentico che pensa di presentare per meritare un posto tra gli autori conosciuti che hanno diritto a un nome e a una foto nell’ufficio del direttore; una verità che però già trapela inconsapevolmente tra le righe delle sue storie. È un uomo solo, che non ha amici se non l’immaginario contraltare dei suoi dialoghi filosofico-letterari. Sfiorando "Budapest" di Chico Buarque, la scelta linguistica di Vicente Battista – apprezzato in Argentina per la sagacia dei suoi racconti polizieschi, surreali quanto quelli di Chesterton - è volutamente ossessiva, basata sulla ripetizione, per accordarsi alla psicologia del personaggio che, nella banalità sistematicamente quotidiana, conserva un lampo di ribellione, un istinto al bisogno di consapevolezza: la sua ricerca degli oscuri “correttori” che giudicano, spiano e modificano il suo lavoro lo spinge a cercare il luogo nel quale essi si riuniscono. Sono figure inquietanti, leggendarie, talmente ligie alle norme da diventare sovra-costrutto della censura, esattamente come per i Ciechi di Ernesto Sábato, gli Invisibili di Haruki Murakami o i Signori Grigi di Michael Ende .

giovedì 29 gennaio 2015

LA FABBRICA DELLA SPERANZA Lavanya Sankaran



Marcos y Marcos, 430 pp., 17 €

Kamala e Anand sono le due facce di un’India che cambia: una vita di lavoro umile e di sacrifici e l’industrializzazione che avanza. Lei ha cercato impiego in città, nei cantieri edili e poi come domestica, con un’incredibile determinazione: tutto per suo figlio Narayan che, lasciato a se stesso, potrebbe prendere una cattiva strada; lui è un imprenditore ch si confronta con i meccanismi oscuri della crescita miracolosa, alimentata dalla corruzione dei politici. Entrambi sono il riflesso di un Paese diviso tra modernità e antiche tradizioni: il progresso che ha le sue radici negli usi atavici, con il sistema di caste che resiste sotto lo sfavillare  delle feste dell’alta società e i riti induisti che propiziano gli affari almeno quanto le bustarelle che devono smuovere i meccanismi della burocrazia. Scissi tra questi estremi, i personaggi si costruiscono nuove identità composite, cercando di accettarsi e farsi accettare; e così si ritrovano a essere ibridi, con un futuro incerto. I giovani sono la speranza di un avvenire radioso mentre la moglie di Anand è costantemente insicura e l’uomo si rifugia nel rapporto d’amicizia con Kavika, simbolo di svolta democratica. Le voci si alternano e s’intrecciano in una narrazione ricca di figure emblematiche ma non si allontana dalla realtà universale, anche se riportata sempre al particolare “esotico” del contesto, in una trama in cui la concretezza internazionale delle relazioni commerciali fa da contraltare alla psicologia individuale. Sankaran ci consegna un libro a metà tra Swarup e Franzen, essenziale saggio delle dinamiche della globalizzazione.

Bangalore

LA REGINA DELLE NEVI Micheal Cunningham

Bompiani, 284 pp. 18€



Tyler vorrebbe un’illuminazione che non arriva, vorrebbe poter scrivere una canzone che lasci il segno , p forse vorrebbe solo avere uno scopo per dare un significato alla propria vita; Barrett – che non sente il bisogno di trascendenza, ma solo l’urgenza di trovare almeno una parvenza di felicità, anche se sfuggente – ha quell’esperienza trascendente quasi per caso. È una rivelazione che separa i fratelli invece di unirli, esattamente come Beth è la creatura angelicata che li avvicina: è una madre, un amore ma è soprattutto l’incarnazione della fragilità effimera dell’esistenza. Non c’è nulla di eccezionale nel quotidiano di queste persone e persino l’uso di droghe è un elemento che non pregiudica il loro inserimento in una piccola cerchia ai margini del sistema. Ciascuno attraversa la sua crisi di mezza età senza troppi clamori, lasciandosi scorrere addosso gli eventi, accogliendo gli eventi come miracoli o scherzi di un dio burlone. Michael Cunningham arriva a trattare la spiritualità come aspetto complementare di un’identità che si inserisce in un quadro sociale più ampio. Ogni gesto è intrinsecamente politico ed è inevitabile che la personalità dei personaggi si costruisca anche sulla base di quanto avviene nel mondo.  Dovranno lasciare lo scenario di una casa-rifugio legata al passato per avventurarsi in un nuovo spazio vuoto e verso un esterno condizionato da una massa insensata. Le tensioni tra il Sé intimo e le relazioni, le micro-comunità e i cambiamenti di un America al bivio si traducono in una lingua che è al contempo colloquiale e poetica, impulsiva e riflessiva. 





mercoledì 14 gennaio 2015

L'ESTATE IN CUI ACCADE TUTTO Bill Bryson

 Guanda, 553 pp., 19,50 €


Sembra che ci siano anni pervasi da una strana forza creatrice, una corrente che potremmo definire “energia situazionale” che fermenta facendo incontrare i grandi personaggi, tutti sulla stessa scacchiera. Negli Stati Uniti, l’estate del 1927 è uno di questi momenti unici. Recentemente poi, la figura di Charles Lindbergh e il sogno del volo hanno conquistato il mondo dell’arte narrativa assumendo varie forme: il libro di Bill Bryson è tanto storicamente documentato quanto “Transatlantic”di Colum McCann è avventuroso e “La Moglie dell’Aviatore” di Melanie Benjamin è rosa. Con “L’Estate in cui Accadde Tutto”, l’autore ci guida in una carrellata di aneddoti, fatti e persone sempre sopra le righe che hanno modificato profondamente il volto dell’America e di tutto l’Occidente. Tornando sempre alla figura romantica  e frustrata del pilota di Saint Louis, ciascun capitolo analizza un elemento del costume sociale degli Anni Ruggenti: il baseball e la boxe; la rivoluzione dei trasporti e i prodromi della crisi finanziaria; la letteratura e il cinema … Il lettore può quindi procedere in maniera lineare, per avere un quadro d’insieme, oppure dedicarsi soltanto alcuni aspetti ma troverà sempre qualche spunto indimenticabile e storie talmente incredibili che sopravanzano la fiction. L’effetto finale è quindi ambivalente: se l’estrema accuratezza della ricerca è senz’altro ammirevole, a volte rischia di diventare troppo puntigliosa, specie nei passaggi più tecnici. Nato in Iowa ma residente in Inghilterra, lo stile del giornalista coniuga il meglio delle due impostazioni anglosassoni  in un racconto ironico e sottile. 

martedì 6 gennaio 2015

FRIDA KAHLO E DIEGO RIVERA

AL PALAZZODUCALE di GENOVA, fino all'8 FEBBRAIO 2015


 
Diego e Frida. Lui completamente aperto al sociale e al pubblico, lei rivolta all’introspezione, immersa in un universo privato. “Dipingo me stessa perché è ciò che conosco meglio”, ha scritto nei sui diari. Non si tratta di Surrealismo, ma di qualcosa di più profondo e intimo che rappresenta una solitudine condita di macabra ironia attraverso i rincorrersi dei simboli. La tradizione messicana a braccetto con una componente bianca derivata dal padre tedesco. A partire dal tragico incidente che le spezza la colonna vertebrale in tre punti e pregiudica per sempre la possibilità di essere madre, l’autoritratto diventa per Frida un bisogno ossessivo di indagare gli stati d’animo e i piccoli mutamenti di una vita quasi immobile. E poi il secondo “incidente”: l’incontro con Diego Rivera e l’amore travolgente che dà senso e disperazione a un’esistenza intera. I due sono complementari. Lui, artista già affermato, ha alle spalle gli studi accademici, i viaggi in Europa (in Italia e a Parigi), le influenze dei più grandi artisti di quell’effervescente debutto del secolo. Lei è un’autodidatta dalla tecnica imperfetta ma il suo stile rivela un’energia comunicativa non comune. La loro è una relazione basata sui sensi e sui colori, sull’immagine prima ancora che sulla condivisione.
 


Fin dall’inizio, i due si mettono in posa, diventando icone del loro tempo, oltre che portatori di una bandiera politica. Frida è la musa che compare in molti murales del marito, accanto a una miriade di altri personaggi, in un pantheon stratificato di significati ideologici; Diego è il centro dell’universo per la Kahlo, che lo trasforma in padre, madre, amante, idea fissa. Una carrellata di fotografie, scattate da grandi maestri dell’obiettivo – tra i quali anche Nickolas Muray che il Ducale sta ospitando con una monografica –, coglie immortala i coniugi insieme o separatamente inaugurando la logica mediatica dell’immagine pop.

 
 
 
 
La mostra del Palazzo Ducale di Genova – aperta sino all’8 di febbraio 2015 – esplora il rapporto tra le due voci più celebri dell’arte latino-americana proponendo una ricca selezione di opere di entrambi. Particolarmente interessante la sezione dedicata a Rivera, con numerosi lavori su tela, schizzi e un bel video che mostra i dipinti murali in tutta la loro imponenza. Si tratta perciò di un percorso complementare rispetto a quello dell’esposizione romana, che era invece incentrata sul lato femminile della coppia, spostando l’accento sull’aspetto psicologico dell’atto creativo. Il paragone tra le tappe italiane dell’evento sono possibili solo in parte, e forse per rilevare carenza dell’esposizione genovese: nonostante gli ottimi pannelli esplicativi, manca un riferimento diretto al corollario dal quale è germogliato il talento espressivo di Frida.  Ma  le brillanti conferenze, gli approfondimenti e  le proiezioni speciali colmano in parte questa lacuna. Unica pecca dunque è la carrellata di abiti tipici che Frida soleva indossare, ma la sfilata sui manichini nelle loro teche in piccolo spazio al finale appare troppo statica.