venerdì 26 settembre 2014

ROBERT CAPA IN ITALIA. 1943-1944


La mostra ROBERT CAPA IN ITALIA. 1943-1944 in corso al Palazzo Ducale fino al 5 ottobre è particolarmente importante per noi italiani, perché racconta una storia troppo facilmente dimenticata; ma l’occhio di chi guarda non è mai imparziale, nemmeno quando l’obiettivo è quello di uno dei grandi padri del fotogiornalismo. Gli scatti presi al seguito dell’esercito statunitense sbarcato in Sicilia tra il 1943 e il 1944 sono formalmente stupendi, ineccepibili, persino toccanti nella descrizione del lato umano della guerra. La macchina cattura la presenza (e l’assenza) umana e i sentimenti di un popolo piegato prima che l’aggressione bellica, anche se la parola più ricorrente nelle didascalie del settimanale “Life” all’epoca era “rovine”. Tuttavia non sbagliano i commentatori che hanno parlato di “Costruzione del Mito”.
 
Il reporter mostra allo spettatore un lato molto parziale della realtà: quello delle folle festanti e dei soldati come eroici liberatori giunti a scacciare i cattivi; ne è la prova l’immagine che fa da locandina all’esposizione: le truppe si concedono un momento di riposo nei pressi della cattedrale di Triona, con una Vittoria Alata sullo sfondo.
 
Scrive lo stesso Capa nei suoi diari che si tratta sempre di immagini semplici, che vogliono testimoniare la verità monotona della guerra. È inevitabile sentire qui un’eco dello stile asciutto di Hemingway che con l’amico condivideva una visione pulita, che sembra filtrare attraverso i canoni della pittura figurativa classica e che inaugura un’estetica cinematografica anche nella presunta spontaneità, ellenica e al contempo concettuale quanto un tableau piège di Spoerri.
 
Tanto il bilanciamento quanto il disordine suggeriscono una quotidianità straniante di ogni conflitto, ma è una visione assolutistica che si ribalterà soltanto con la disillusione del Vietnam (dieci anni dopo). Nel 1944, solo i primi piani ravvicinati di due prigionieri confutano in parte questa impostazione e si capisce da dove Tarantino abbia preso i suoi modelli sovvertendone il significato in “Bastardi Senza Gloria”.

I medici impegnati sul fronte sono illuminati come su un set; la ragazzina tratta in salvo dalle macerie e portata a spalla verso un luogo sicuro è seguita passo passo, enfatizzando l’aspetto di marketing di certe azioni piuttosto che altre; persino i paesaggi appaiono come allestimenti scenici entro i quali le figure sono distribuite ad arte.
 
 Sulla scia di questa idea propagandistica (non si sa fino a che punto inconsapevole), le donne e i bambini i protagonisti affianco alle truppe. Le foglie mimetiche sui caschi somigliano al lauro che incoronava gli attori greci e si sente una nota di comicità nella contrapposizione caricaturale tra il forte soldato americano e il carabiniere basso di statura che gli offre da bere. La morte è una costante lasciata tra parentesi: si scorgono i pennacchi di fumo dei combattimenti, i carri armati e addirittura i corpi per le strade ma tutto questo fa parte di un equilibrio compositivo fatto di linee e geometrie auree.


 
 È lo stesso metodo che il reporter aveva adottato per documentare la Guerra Civile spagnola, privilegiando l’aspetto vitale, simbolico delle situazioni – lontano dalla drammaticità Metthew Brady e più prossimo a Cartier-Bresson. L’ottimo allestimento lascia dialogare i singoli scatti e i numeri originali di “Life” li inseriscono in un progetto narrativo strutturato per un pubblico che si stava già abituando a un linguaggio dinamico dell’informazione. Considerato in quest’ottica, acquista senso lo schermo sul quale scorrono alcune delle opere in mostra, creando un’interessante dicotomia tra originale (fotografico) e riproduzione. Sui sentieri di montagna nei pressi di Napoli, le colonne ordinate si contrappongono alla vegetazione e alle formazioni sparpagliate sulle rocce; il misticismo umile di un piantone che consuma il rancio tra gli alberi morti completa una serie di foto di ragazzi rannicchiati nelle trincee in posizione fetale – precognizione del concetto di naive american.
La piccola selezione permette all’osservatore di assumere un duplice approccio: prima una visita attenta ai particolari e quindi un secondo giro più rapido che catturi la coralità delle masse,  il lato quasi gioioso insieme a quello - nascosto - del dolore.
 
 





domenica 14 settembre 2014

EMILY CARR: IL COLORE CHE SVELA LO SPIRITO DELLE COSE


L’AMANTE DEL BOSCO Susan Vreeland

Neri Pozza Editore, 362 pp, 14.50 €

 



A volte un romanzo è un buon pretesto per riscoprire aprire porte inaspettate. È ciò che avviene con “L’Amante del Bosco” di Susan Vreeland incentrato sulla figura della pittrice canadese Emily Carr , ispirata dalla maestosità delle foreste e dalla trascendenza della cultura dei nativi.
Totem Walk at Sikta
 
 Quando si legge un libro in cui compaiono personaggi realmente esistiti bisogna sempre considerarlo come una finzione, senza pretendere la precisione di un resoconto storico. La scrittura appassionata e appassionata trasmette la potenza dei colori della tavolozza: pennellate pure, tonalità non scientifiche ma alterate dalla percezione emotiva, composizioni in cui prevale il movimento. Il gesto creativo si fonde con l’urgenza comunicativa, mentre le antiche tradizioni delle Prime Nazioni traduce la vitalità di un mondo minacciato. Attraverso le linee – squadrate ma fluide – la deformazione che rende l’importanza gerarchica dei dettagli; grazie ai soggetti e all’alterazione percettiva, l’artista si trasforma in messaggera, portatrice di della trascendenza. Secondo Walt Whitman “Il minimo germoglio mostra che la morte non esiste” ed è con questa idea che la Carr si spinge nei luoghi più remoti di un’affascinante geografia, selvaggia quanto i Fauves francesi ma animata da una forza diversa, da un ritmo che nasce dal suo cuore e dal suono dei tamburi, più vicina al linguaggio  volumetrico del Gruppo dei Sette di Harris, Lismer e Carmichael.



Blue Sky
 
Le pulsioni sensoriali fisiche sono sublimate  nel desiderio di dipingere, fulcro centrale della vita. Nei disegni, negli acquarelli e sulle tele, l’individuo sembra quasi scomparire di fronte alla grandezza degli alberi ma in realtà le specie vegetali e i pali totemici racchiudono un mondo di storie, rappresentando i mutamenti psicologici e i tratti fondamentali del carattere. I boschi sono fatti di luci e ombre, toni chiari e toni scuri, saturazioni e contrasti. Tronchi e manufatti indigeni sono geometrie sconnesse, scosse dai cambiamento atmosferici. 
 

Reforestation

Incompresa dalla critica ma inevitabilmente legata al lavoro etnografico di Franz Boas con i Kwakiutl del Nordovest, Emily era dolorosamente consapevole di lavorare in un’epoca (tra il 1906 e il 1941) in cui lo sguardo antropologico sulle culture aborigene era asservito all’impresa colonialista.
A Skidegate Beaver Pole

Susan Vreeland indaga la tensione psicologica derivata da questa situazione in bilico tra la purezza dell’ideale e la necessità, anche narcisistica, di farsi conoscere per denunciare la gravità della situazione. Con l’airosità dei periodi, la sensibilità letteraria traduce le variazioni cromatiche del paesaggio, marcando il passaggio dagli spazi aperti (ma non incontaminati) del Nord America all’ambiente parigino.
 


Autumn in France
 


Emily cercò, infatti, nuovi orizzonti in Europa e trovò una crescita tecnica ed emotiva che poi applicò nell’amore panteistico per il territorio.
 Grazie alla distorsione iconografica del soggetto lasciando che luoghi e delle piante diventassero icone e metafore dei tratti caratteriali degli individui.




Kitwancool


 
 Indian Church


lunedì 8 settembre 2014

TAKASHI MURAKAMI: CICLO DI ARHAT


 
Domenica 7 settembre 2014 si è conclusa  al Palazzo Reale di Milano la mostra dedicata al Ciclo di Arhat del giapponese Takashi Murakami, uno dei degli più celebri e innovativi del panorama contemporaneo. in bilico tra arte grafica, installazione e scultura, la sua irriverenza ha denunciato la superficialità della cultura commerciale di massa inventando uno stile – il Superfat – fatto di personaggi teneri deformati, ammiccamenti espliciti e ripetizione serializzata di pattern decorativi. La nuova la selezione (purtroppo incompleta) presentata in Italia prende invece le mosse dal trauma che ha scosso la coscienza collettiva del Sol Levante dopo la catastrofe di Fukushima del 2011: non solo una tragedia causata dalla natura ma anche un brusco risveglio da una moratoria adolescenziale che metteva l’uomo al centro di un sogno iper-tecnologico.

I pezzi esposti sono pochi ma impressionanti.



Negli autoritratti, l’autore si rappresenta in piedi sopra una nebulosa spaziale, dominatore di un buco nero che si ripete nelle diverse varianti del soggetto cambiando soltanto il colore dello sfondo fino a raggiungere l’ottimistica apoteosi della rinascita della Terra con lo sbocciare di sorridenti margheritine autocitazioniste. Il tema fioritura di un nuovo mondo post-apocalittico è frequente nella narrativa visiva nipponica sin dai tempi di Hiroshima e, in grandi classici della fantascienza animata come Capitan Harlock, aveva già assunto la veste simbolica dei semi pronti a fiorire da un suolo apparentemente contaminato. Qui lo stile grafico è quello della Street Art ripresa poi dai writers di tutto il mondo, dove persino i teschi diventano faccine carine e colorate. I pianeti di carnei fucsia, azzurri e verde acido sorreggono l’uomo sopravvissuto che a sua volta genera l’Albero della Conoscenza (con qualche richiamo al mito greco di Atena e uno sguardo ai corti indipendenti di Kôji Yamamura). Il dramma si stempera con l’intervento salvifico degli Arhat, i saggi della tradizione buddhista, affiancati dai possenti demoni guardiani. Oltre cento monaci sfilano sui pannelli, tutti raffigurati in pose differenti e sempre con il tono scherzoso di un anime o di un manga di Hokusai in versione tecnicolor. Le dimensioni mutano e i maestri più grandi indossano tuniche che riprendono i motivi della natura: la notte e il giorno; la flora e la fauna mentre Sole e Luna sono brillano simultaneamente sulla Montagna degli Immortali e i Demoni-Cane hanno barbigli colorati e artigli come gemme. La ricchezza della composizione fa scoprire sempre dettagli inaspettati mentre un retino a rombi optical copre un originario fondo che rivela appena un ammasso di ossa, come se la costruzione della civiltà, basata sul bisogno innato di trascendenza, poggiasse in realtà sulla ripetizione della Morte nella Storia.