sabato 12 luglio 2014

BANLIEUES: UN CÔTÉ LETTERARIO


Recentemente, cercando di orientarmi nella galassia di ROMAIN GARY (e scoprendo solo al pluralità dell’eteronimia legata all’occasione, o meglio “all’azzardo” che ha generato Émile Ajar, autore immaginario di “La vita davanti a sé”), ho letto un paio di libri ambientati nelle banlieues parigine. Fermo restando che ogni comune limitrofo alla grande area urbana si configura come un universo a sé, ci sono comunque alcuni elementi costanti che hanno favorito la diffusione dei disordini, alla fine del 2005.
 
All’epoca erano stata la morte di due ragazzi (forse inseguiti da due agenti di pattuglia)  e poi il linguaggio di Sarkozy e dei suoi ministri a innescare le reazioni sempre più violente di una popolazione esasperata da decenni di emarginazione. Le rivolte erano scoppiate come tanti incendi, arrossando la topografia della capitale e della Francia intera. Parlando di “ripulire i quartieri difficili usando gli idranti della polizia” , il presidente cancellava anni di tentativi sulla strada dell’integrazione e del dialogo riaffermando il mito di una pretesa uniformità francese e rafforzava i lati negativi di un modello fortemente assimilazioni sta, che non ha mai riconosciuto particolari diritti alle minoranze. La naturalizzazione – a ben guardare – è un concetto curioso, come se la mancanza di un riconoscimento della pubblica autorità sottraesse essenza ontologica all’Uomo; non è possibile tracciare un giudizio univoco senza cadere nello stereotipo. Per i ragazzi nati e cresciuti respirando queste realtà, la formazione di un’identità definita è un gradino difficile da affrontare perché sono messi di fronte a una divisione culturale che troppo spesso diventa una vera spaccatura, per tradursi quasi inevitabilmente in situazioni di degrado e di povertà relativa. Dal punto di vista socio-economico, quindi, bisognerebbe interrogarsi sull’idea insidiosa di “discriminazione positiva” , che prevedrebbe l’approvazione di quote che favoriscano le categorie sociali non-dominanti.

 


 
Sul piano letterario, ponendosi a livelli molto differenti tra loro, i romanzi che ho pescato nel mare magnum della letteratura su questo tema gettano u n po’ di luce sulla quotidianità di questi suburbi, separati dai villini dei “francesi veri” da una virtuale frontiera  – quel Boulvard Péripherique che si apre come un doppio fossato invalicabile.



FAÏZA GUÈNE, giovane scrittrice di origini algerine, ha pubblicato “Kif kif domani” per raccontare la vita di una normale adolescente nella zona di Bagnolet, una cittadina a mezz’ora da Parigi. Con uno stile semplice, piano e vivace che confina col genere “young adults” da spiaggia e ricorda il boom dei telefilm francesi degli anni Novanta, l’autrice descrive un contesto in cui non resta quasi nulla della patina nostalgica tipica della narrativa d’oltralpe.”Kif-kif “è un termine gergale che significa all’incirca  “è lo stesso” e l’universo quotidiano di Doria è fatto di assistenti sociali, psicologhe, vicine pettegole, tutti sembrano congiurare contro la ragazza e sua madre che, abbandonate dal padre-marito, stentano a trovare un posto nella geografia sociale della nazione. Tar parentesi,  la sottotrama che riguarda gli uomini di questa storia è interessante perché tocca la necessità di ritrovare le radici  ritornando a una patria spesso dimenticata,  mai conosciuta o mitizzata. Dunque questo padre che parte per il Marocco per sposare una ragazza del luogo ha qualcosa in comune con il marito di Susan in “I ragazzi Burgess” di ELIZABETH STROUT che lascia tutto nel Maine per andarsene in Scandinavia. Contesti diversissimi  che delineano però nello stesso modo il bisogno archetipico di esplorazione che coincide con la scoperta di sé. Persino il sogno di Madame Rosa nel libro di Gary ha i tratti della fondazione di un’utopia immaginaria. “L’angolino ebreo” creato in cantina e il falso viaggio in Israele sono l’ultimo rifugio di una donna malata ma, mentre la donna resta come ancora di salvezza e pilastro della comunità, i maschi si spostano rincorrendo le illusioni nello spazio, diventano “fanatici dell’altrove”, “ossessionati dal desiderio di andare a portare la propria parola e la propria storia” (N’Sondé). I migranti sono novelli Ulisse alla corte di Alcinoo. 



“Il morso del leopardo” di WILFRIED N’SONDÈ usa un registro e tinte scure e frenetiche per rendere lo stesso tipo di disagio: il protagonista si sente dilaniato, incapace di far convivere le due metà del suo background. Per il piccolo Momò di Gary, la formazione affidata alla voce di un vecchio saggio portatore della tradizione si scontra con il presente – e forse non è un caso che Gary dia il nome Émile all’autore fittizio di “La vita davanti a sé”, richiamandosi al classico della pedagogia voltairiana. Mentre nel racconto di Mohammed, allevato in una casa-asilo per i bambini di strada, permane un’ aura vintage che rievoca una foto anticata, N’Sondè, scrittore di origini congolesi, incastona una lingua poetica e dolorosa in un mondo estraneo, segnato dalla violenza di un degrado non voluto ma imposto. Che da stigma collettivo diventa trauma privato. La diffidenza che si respira “fuori” finisce per contaminare anche le relazioni personali: l’amicizia con Drissa, sempre più perso nelle sue fantasie e nel suo mutismo e l’amore con Mireille. Il rapporto tra con la ragazza bionda e bianca – “quasi trasparente” – è intellettuale ma prima di tutto sensoriale e rimanda a tutti i livelli ai problemi delle “coppie miste”, con l’inevitabile altalena d’incontri e di scontri.


 
 
Il primo riferimento potrebbe essere “Bianco e nero”, il divertente film con FABIO VOLO, non si può annunciare uno conflitto tra culture sul piano antropologico quanto piuttosto una scissione prima di tutto interiore che si riassumeva benissimo già in uno dei quadri della pittrice messicana Frida Kahlo. In “Le due Frida” un’arteria collega il cuore di una Frida occidentalizzata a quello di una indigena.  


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